SANITÀ/ Perché non pubblicare i risultati dell’attività di medici e strutture?

- Michele Castelli

I dati e l’analisi dell’ANIA riportati di recente dalla stampa inducono a riflettere sulla qualità dei servizi erogati in sanità. Secondo MICHELE CASTELLI, sarebbe opportuno che anche nel nostro Paese si riaprisse il dibattito sulla diffusione pubblica di alcuni dati relativi all’attività dei medici o delle strutture sanitarie

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I dati e l’analisi dell’ANIA (Associazione nazionale delle imprese assicuratrici) riportati dalla stampa di ieri non sono che l’ultimo di una serie sempre crescente di indagini tese a dimostrare e indagare un fenomeno in costante aumento, quello delle denunce dei cittadini verso medici e ospedali. Questa problematica è estremamente rilevante per il funzionamento del nostro sistema sanitario, dal momento che un aumento costante di denunce e di richieste di risarcimento da parte dei pazienti non può che aumentare il costo delle polizze assicurative per gli operatori sanitari, oltre a generare un senso di sfiducia generalizzato verso questi ultimi. Naturalmente è giusto che se qualche medico compie degli errori debba risponderne, in tutte le sedi opportune. Il punto chiave della questione è che, come afferma anche l’ANIA, non sempre la denuncia scatta a seguito di un reale fenomeno di malasanità. Non essendo questa la sede per affrontare la questione nel dettaglio, si vuole qui semplicemente riportare tre spunti di osservazione che possono essere utili per comprendere meglio il fenomeno e individuare alcune criticità che possono essere meglio affrontate:

1) Una prima considerazione è di carattere culturale, che riguarda il mutato rapporto tra medico e paziente (o tra struttura sanitaria e paziente). Un tempo vi era una concezione paternalistica del medico, al quale il paziente si affidava speranzoso e senza obiezioni di alcun tipo. Oggi, grazie al miglioramento della qualità delle cure, alle nuove tecnologie e alle maggiori informazioni di cui i pazienti dispongono, questi ultimi hanno aumentato notevolmente le aspettative nei confronti sia dei medici, che degli esiti delle cure a cui si sottopongono. La dinamica in sé è sicuramente positiva, dal momento che un aumento di consapevolezza e di capacità di discernimento di un fenomeno è sicuramente auspicabile, ma si può venire a creare una distorsione secondo la quale un paziente potrebbe, in base ad aspettative esagerate o addirittura sbagliate, intentare cause per il solo fatto che l’operazione non è andata bene o che il medico non ha fatto quello che lui avrebbe voluto (e l’autonomia del medico dove la mettiamo?). Può venire completamente a mancare il rapporto fiduciario che è un presupposto molto importante nel percorso di cura. Questo, in estrema sintesi, è una questione da non sottovalutare, perché non di rado è difficile capire quando ci si trova di fronte a reali errori o inadempienze di alcuni medici e quando invece i pazienti assumono comportamenti equivoci, al limite della speculazione.

2) In secondo luogo, data questa problematica, bisogna individuare strumenti che limitino fin dove possibile la probabilità che un medico (o i processi inerenti alle varie fasi del percorso di cura di un paziente) sbagli o sia indotto a sbagliare. E per fare questo, non bastano i propositi o la buona volontà: occorre implementare procedure, strumenti e attività di gestione del rischio clinico che concretamente aumentino la probabilità di intercettare gli errori commessi (anche quando non hanno causato un danno) o meglio di prevenirli grazie, ad esempio, alla mappatura dei processi interni. Alcune Regioni (come Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia e Toscana) sono all’avanguardia in Italia nello sviluppo di tali attività di gestione del rischio e i dati dicono che laddove si applichino tali procedure, le richieste di risarcimento e le denunce calano.

3) Infine, esiste una questione relativa alle informazioni di cui dispone il cittadino/paziente. A mio parere sarebbe opportuno che anche nel nostro Paese si riaprisse seriamente il dibattito su di un tema che è già stato discusso in passato ma senza giungere a soluzioni definitive, cioè quello della diffusione pubblica di alcuni dati relativi all’attività dei medici o delle strutture sanitarie. In alcuni Paesi esteri (tra cui Canada, Regno Unito, Olanda e Usa), con modalità e finalità differenti, è possibile per i cittadini accedere ad una serie di informazioni sulla qualità delle prestazioni erogate dalle strutture, sull’attività dei singoli medici, sul giudizio dei pazienti rispetto alle cure ricevute nelle strutture sanitarie e altri indicatori che sicuramente contribuiscono a “informare” meglio e in modo più completo il paziente nelle sue scelte. Naturalmente si potrebbe discutere a lungo su quali informazioni si potrebbero rendere pubbliche, sul come, sul quando, etc., ma sarebbe già un passo in avanti rispetto ad una situazione attuale in cui per molti questo discorso è quasi un tabù. Sarebbe auspicabile invece un confronto sereno, ragionevole, basato sui fatti, privo di pregiudizi ideologici o posizioni preconcette, nel quale valutare l’opportunità di diffondere al pubblico alcuni dati di attività, ad esempio su base volontaria, da parte delle strutture.

Tra l’altro con questa dinamica, se governata bene, da una parte si creerebbe un circolo virtuoso di maggiore “competizione regolata” sulla qualità dei servizi che spingerebbe le strutture (o gli operatori) più carenti al miglioramento delle proprie attività, dall’altra i pazienti potrebbero essere più restii a sporgere denunce poco attendibili, dal momento che avrebbero a disposizione molte più informazioni.

Su questi tre spunti sarebbe interessante aprire un dibattito che, partendo da esperienze già in atto, dai risultati ottenuti e dai miglioramenti (o peggioramenti) riscontrati possa contribuire ad affrontare questa problematica. 







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