CRISI FINANZIARIA/ Contro la ricchezza virtuale, persone capaci di costruire
La partita tra mercato e Stato obbliga a rimettere al centro la persona come responsabile del proprio destino. Abbiamo toccato con mano che il comportamento economico opportunistico è e tale rimane. VOTA IL SONDAGGIO.

Fino a poco tempo fa ci dicevano, un giorno sì e uno no, che l’Italia rischiava il declino, economico e non solo. Ora le cattive notizie ci arrivano da oltreoceano portandoci anche la paura, questa sì concreta, del contagio. Dobbiamo dedurne di conseguenza che le basi del nostro agire economico non erano, non sono poi così negative.
Messi da parte facili e inutili trionfalismi occorre però non perdere l’occasione per una riflessione sul nostro modo di stare sulla ribalta economica internazionale. È il nostro un modello originale di sviluppo che, con tutti i miglioramenti del caso, va apprezzato e difeso nelle sue peculiari caratteristiche.
Piccole imprese verso grandi dimensioni, finanza come mezzo a sostegno dell’impresa manifatturiera, mai come fine in sé; mercato borsistico come alternativa, anche residuale, al finanziamento imprenditoriale e non come incrocio principale dei destini aziendali; famiglie proprietarie nella maggioranza dei casi fortemente legate nel tempo all’evolversi della dinamica aziendale e non manager troppo spesso mercenari del mercato del lavoro; imprenditori remunerati con parte dell’utile eventualmente prodotto e non chief executive officer autoincentivati con bonus milionari pochi giorni prima del disastro; banche del territorio disposte ancora oggi a premiare l’iniziativa del singolo e non a finanziare la realizzazione di sogni impossibili; un territorio, quello dell’Italia dei comuni che è ancora oggi, nonostante tutto, sinonimo di voglia di fare, ricchezza di rapporti, fiducia reciproca, contrasto all’indifferenza e alla superficialità.
Certo questo nostro modello mostra oggi vistose crepe dove si insinua il dubbio dell’insicurezza e della paura, non tanto e non solo di quella economica, dell’individualismo e della perdita di senso causato dall’inaridirsi delle radici che nel secondo dopoguerra hanno motivato l’azione di tutti e che ha prodotto il benessere diffuso in cui siamo abituati a vivere.
Come nel gioco di bambini del passaparola, così nel passaggio tra le generazioni l’origine del fare si è dapprima sbiadita, poi solo lontanamente riecheggiata, oggi quasi persa. E tuttavia i risultati ci dicono che questo impasto, più o meno incosciente, di tradizione, responsabilità, voglia di intraprendere, percezione, sia pure ridotta, del bene comune, realismo sono in grado di mettere al riparo il Paese e il suo popolo molto più e molto meglio di un mercato lasciato libero di alimentare il bisogno, pur vero, delle persone.
Questo giusto riconoscimento non può coprire, peraltro, le responsabilità di chi ha da sempre zavorrato con sprechi, inefficienze ingiustificate, centralismi fuori dalla storia e contrapposizioni ideologiche questo modello originale di sviluppo. Non ci sono qui categorie da mettere sul banco degli accusati, perché si è trattato di un comportamento che ha spesso interessato trasversalmente tutti: pubblico e privato, sindacato e imprenditori, scuola e lavoro.
La partita tra mercato e Stato obbliga a rimettere al centro la persona come responsabile del proprio destino e l’educazione come strada per approfondire la sua coscienza. Abbiamo toccato con mano che non c’è corso di etica degli affari che tenga, anche quelli delle prestigiose scuole di business statunitensi, e nemmeno leggi in grado di modificare sensibilmente il comportamento economico: opportunistico è e tale rimane.
Meglio riconoscere allora, almeno in economia, l’azione di quelle persone, gli imprenditori, che lontane dalla perfezione astratta dei modelli matematici si assumono quotidianamente responsabilità all’interno delle proprie aziende. Occorre proporre questa figura come immagine positiva, forse la vera risorsa economica del nostro Paese, promuoverne la diffusione e sostenerne lo sforzo.
Riconoscere, non solo simbolicamente, la figura dell’imprenditore può essere utile anche a sottolinearne i doveri sociali, a temperarne l’iniziativa privata nell’interesse della collettività più ampia, ad emarginare figure imprenditoriali, poche per la verità, che, nel loro essere più simili a pirati che a costruttori di imprese, ne danneggiano l’immagine complessiva.
Il nostro modello originale di sviluppo ha bisogno di imprenditori che non perdano nel tempo la voglia di rischiare, che sappiano adattare le proprie competenze e la naturale predisposizione alle mutevoli necessità dell’azienda, che vivano questa straordinaria avventura come realizzazione di sé e servizio agli altri, un misto di fatica e privilegio.
Non eroi, né moderni miti, ma uomini e donne di cui la nostra società ha particolarmente bisogno e a cui essere riconoscenti per la funzione che assolvono.
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