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Home » Economia e Finanza » CDO/ 2. Le Pmi alla prova della crisi: innovazione, qualità e servizio entrano in rete

  • Economia e Finanza

CDO/ 2. Le Pmi alla prova della crisi: innovazione, qualità e servizio entrano in rete

Inizia oggi la quarta edizione del Matching 2008, iniziativa di Compagnia delle Opere che promuove incontri tra imprenditori sulla base di reciproci interessi, per sviluppare relazioni e opportunità di business. Paolo Preti (Università Bocconi) spiega la metamorfosi dell’impresa italiana, dal boom economico ad oggi, e cosa le serve per essere competitiva

Paolo Preti
Pubblicato 17 Novembre 2008
meeting_imprenditoriR375_16nov08

Quelli dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri sono stati, in tutta evidenza, anni di crescita economica e di sviluppo che hanno interessato larghi strati della popolazione: tali successi sono maturati con il contributo di strategie imprenditoriali e modalità organizzative molto diverse tra di loro. Tale evoluzione si è realizzata in tre fasi che hanno caratterizzato rispettivamente gli anni sessanta, i settanta, e gli ottanta-novanta.


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La prima fase è stata quella del boom economico, caratterizzato dalla nascita di migliaia di imprese attorno all’idea di altrettanti prodotti nuovi o innovativi. Prive di una cultura industriale specifica, esse tuttavia sfruttarono le favorevoli condizioni economiche per crescere svincolate da considerazioni di opportunità nel medio-lungo periodo. Tutta l’attenzione di quegli imprenditori fu concentrata nel cercare di mettere in grado le proprie aziende di sfruttare al massimo le occasioni che il lungo ciclo economico positivo e gli ottimi prodotti pensati e realizzati proponevano. Si perse facilmente di vista, di conseguenza, la dimensione organizzativa e tutti gli investimenti furono diretti verso la produzione e la commercializzazione: partendo da zero molte aziende crebbero a dismisura in posti di lavoro, in metri quadrati coperti ed in fatturato. Molte di esse, dunque, al mutare delle condizioni economiche nazionali e internazionali entrarono in crisi e, nonostante le loro innovazioni di prodotto, furono spazzate via.


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Conviene riflettere su quei momenti perché, per alcuni versi, presentano qualche similitudine con quelli che siamo chiamati a vivere oggi. Allora alcune aziende riuscirono a superare quell’impatto proprio in forza della loro maggior elasticità organizzativa, ottenuta con investimenti in quest’area della gestione aziendale negli anni precedenti e con un più cauto processo di crescita dimensionale.

L’effetto combinato di questi accadimenti e di una legge come lo Statuto dei lavoratori, legge del maggio 1970, innescarono una seconda fase caratterizzata da imprese sulla difensiva, che esternalizzavano parti del processo produttivo per restare piccole, che per lo stesso motivo preferivano incentivare la nascita di altre imprese favorendo la fuoriuscita dei propri quadri migliori piuttosto che costruire attorno ad essi aziende più grandi. Il decentramento produttivo che ne conseguì si accompagnò ad una forte evasione fiscale e ad una fuga dal conflitto sindacale: le imprese cercavano di restare più piccole possibile per paura delle responsabilità collegate alle maggiori dimensioni. Anni difficili e faticosi, in cui essere imprenditori significava essere padroni più che datori di lavoro e terzisti più che produttori su proprio disegno.


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Anni che, però, insieme a quelli molto diversi della precedente fase, hanno permesso di accumulare esperienza e conoscenza e di innescare quindi una terza fase di crescita. È la fase degli accordi interaziendali, dei gruppi di impresa, dei distretti: in sintesi, della collaborazione tra imprese realizzata non per timore o per insicurezza, ma per ottenere i benefici effetti della grande dimensione senza sopportarne i costi. Non una fuga, dunque, come nella fase precedente, ma una strategia di attacco. Il territorio in cui pochi anni prima ci si è rifugiati per sentirsi protetti da vincoli fiduciari diventa distretto, e la fiducia di prossimità da paravento si trasforma in facilitatore economico. Interi settori si disintegrano verticalmente sul territorio e maturano economie di specializzazione e imprenditorialità diffusa con alcune imprese-guida che tirano le fila. Non si fugge più dalla competizione, anzi la si affronta insieme con ritrovata fiducia nei propri mezzi.

Questa fase ci consegna una figura imprenditoriale mutata rispetto a quella degli anni sessanta: ha imparato dagli errori di chi l’ha preceduta, ha assimilato tutta la loro esperienza, ma ha ridotto di molto quella capacità di innovare nel prodotto che contraddistinse l’esperienza dei primi. Il nostro, ed ovviamente si accenna ad un dato medio, era diventato un imprenditore più assemblatore del lavoro altrui che creatore e realizzatore in proprio, più attento ai costi che al prodotto e al servizio.

Oggi, l’impresa in grado di competere con rinnovata forza sui mercati globalizzati, quella uscita vincente dal processo di metamorfosi che sta caratterizzando questo scorcio di inizio secolo, è un‘impresa che deve dare grande spazio all’innovazione di prodotto con la messa a punto di beni di ottima qualità e dalla forte valenza immateriale, che investe in politiche di marchio attentamente seguite anche attraverso il presidio diretto della distribuzione e un rilevante contenuto di servizio e di assistenza post-vendita; necessariamente queste aziende, pur continuando in alcuni casi a perseguire una politica organizzativa fondata sulla collaborazione con fornitori, cercano necessariamente una “presa” maggiore sulle attività coordinate all’esterno dei propri confini, perché la presenza di fattori organizzativi tipici della gerarchia e del clan facilita la realizzazione di quel cambiamento strategico.

L’innovazione, la qualità e il servizio la si pensa all’interno delle imprese, ma la si realizza solo con il fattivo contributo di tutti coloro che, dall’esterno, sono chiamati a dare il proprio contributo. L’esternalizzazione di fasi considerate a basso valore aggiunto con l’impresa al centro della costellazione che detta le regole del gioco facendo leva sulla sua forza contrattuale e negoziando condizioni sempre più penalizzanti per i terzisti, non sembra più essere il modello, se mai lo è stato, seguito dalle piccole aziende forti. Resiste, ma non è più una soluzione vincente nel contesto italiano.

Le imprese più avanzate continuano a decentrare fasi produttive ma selezionano terzisti eccellenti, studiano insieme soluzioni innovative, li trattano come dei partner produttivi, li fanno crescere, valorizzano le loro competenze e li incentivano a fare investimenti per garantire dei livelli di qualità e di sofisticazione produttiva altrimenti irraggiungibili. Sebbene la fabbrica totalmente integrata sia da tempo venuta meno, sta in parte risorgendo sottoforma di agglomerati di produttori specialisti, di “associati”, legati al committente da vincoli fiduciari di lungo periodo oltre che da contratti economicamente interessanti.

Solo con questa rete di legami più stretti – che garantiscono una maggiore integrazione tra committente e fornitori – si riesce oggi a raggiungere quella gamma di offerta che poi viene apprezzata nelle fasce alte del mercato di tutto il mondo.


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