FINANZA/ Il paradosso del default: letale, ma salutare per l’Italia

- Mauro Bottarelli

Lo spettro del default di uno dei paesi dell’area euro si sta allontanando. I rischi per l’Italia sono poi praticamente minimi dato che i danni maggiori sarebbero per gli altri paesi

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Ultimamente, visto l’avanzare della crisi e il suo trasformarsi in rischio recessivo sulle economie reali, in molti mi chiedono se il prossimo anno non possa portarci in dote una spaccatura dell’eurozona sotto il peso di debito pubblico e disoccupazione galoppante.

 

Ovvero, proprio mentre nasce la nuova Ue post-Lisbona, qualcosa potrebbe minare la stabilità dell’Unione fino all’estrema ratio di una sospensione di qualche Stato e la trasformazione della sua partecipazione alla moneta comune in un peg, ovvero un agganciamento all’euro che ne segua le dinamiche ma che non ne mini la stabilità con effetti domino.

Ma è possibile un’opzione simile, un default con ipotesi di uscita dall’eurozona? E, se sì, come si concretizzerebbe? Prima di tutto, una premessa. L’aumento dello spread, ovvero della forbice tra titoli di Stato tedeschi – i Bund – e i italiani – i Bot o Btp – e degli altri paesi cosiddetti “periferici” è aumentato enormemente nel corso della crisi e questo deve essere visto sì come un campanello d’allarme ma non come una condanna a morte definitiva: il rischio Paese, in tempi simili, diviene prioritario per chi investe.

La stessa Germania, a causa delle pessime stime di crescita e del crollo dell’11% delle esportazioni, ha visto aumentare sul finire dello scorso annus horribilis i propri cds sul debito ma il rating tripla A è rimasto saldo nonostante l’ondata di downgrading operata dalle società di rating nell’eurozona, dalla Grecia all’Irlanda al Portogallo.

«All’epoca sapevamo che i periferici non avrebbero trovato compratori per un po’, visto che il clima fosco dell’economia spinge gli investitori all’acquisto di titoli rifugio come quelli tedeschi lasciando in ombra i cosiddetti non-core», dichiarava un trader di base a Londra.

«Va detto, comunque, che l’Italia ha retto meglio di altri la pressione dello spread sul Bund decennale, visto che paesi come Austria, Grecia, Spagna e anche Olanda hanno avuto performance pesantissime a causa dell’esposizione verso Est e altre criticità come l’aumento del tasso di disoccupazione», prosegue l’operatore.

Insomma, non stiamo certo bene visto il peso del nostro debito pubblico – 110% del Pil e tendenza a salire – ma per adesso il nostro paese ha retto meglio degli altri. A testimoniarlo proprio il fenomeno di assottigliamento nel decennale dello spread tra i nostri titoli di Stato e il Bund, dopo i massimi di inizio anno.

Il perché è presto detto. Rispetto agli altri paesi periferici l’Italia offre il duplice vantaggio di essere un mercato molto più liquido e di non essere stata in alcun modo penalizzata dalle agenzie di rating intervenute pesantemente, come già detto, negli ultimi mesi: insomma, i titoli italiani offrono così un premio di rendimento molto interessante rispetto ad altri diretti concorrenti e continuano ad attrarre domanda.

Una cosa è certa, l’Italia non andrà in default come accaduto nel 1992 – con miliardi di lire spesi nel tentativo di placare la speculazione internazionale e la nostra espulsione dallo Sme insieme alla Gran Bretagna – per il semplice fatto che proprio lo scudo dell’euro costringerebbe i nostri coinquilini dell’Ue a salvarci in qualsiasi modo.

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Il perché è semplice. Un eventuale default italiano potrebbe inficiare il valore dell’euro, al massimo, per l’entità complessiva della partecipazione italiana alla Bce, ovvero il 14%: escluso, quindi, un effetto Argentina. Nel caso estremo di uscita dall’eurozona, infatti, l’Italia potrebbe reagire al default svalutando la moneta per rendere conveniente l’export: non avendo più debiti per via del fallimento, sarebbe tecnicamente persino possibile una svalutazione del 50%.

 

Il che rappresenterebbe un incubo per tutti i concorrenti europei poiché, disponendo il nostro paese di imprese in grande quantità e di grande qualità, la svalutazione shock di un’eventuale nuova lira produrrebbe la distruzione del settore manifatturiero di tutti i paesi mediterranei, Spagna , Francia e Turchia incluse, a favore dell’Italia.

 

Inoltre il 50% del nostro debito pubblico è in mani straniere, il che significa che immediatamente i governi inizierebbero a trattare per avere una restituzione anche parziale del credito: poiché esso viene usato principalmente ai fini pensionistici, diversi governi sarebbero disposti a fare di tutto perché almeno il 30% del debito sia pagato, come nel caso argentino. Solo il 15% dei Bot è realmente in mano a investitori italiani individuali, una fetta di cittadini per cui comunque sarebbe possibile approntare una sorta di rete di salvataggio.

 

Nei fatti – e Dio ce ne scampi – dichiarare un default sarebbe un brutto colpo per 5-10 anni, soprattutto perché il fabbisogno pubblico dovrebbe calare enormemente, con un taglio gigantesco della pubblica amministrazione visto che non sarebbe più possibile finanziare nulla se non entro il 45% di pressione fiscale nazionale. Paradossalmente, uno shock durissimo ma salutare.

 

Che non accadrà, salvo una spirale incontrollata della crisi, proprio perché l’euro forse non è uno scudo ma una leva che costringe i nostri partner a salvare noi o qualunque altro membro a rischio di destabilizzazione. Per salvare se stessi.





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