L’effetto Marchionne sembra funzionare anche in Europa. Per carità, nulla di paragonabile al solenne via libera di Barack Obama all’operazione Chrysler. Ma, dati i precedenti, erano ben pochi a pensare che i vertici della Germania Federale non chiudessero la porta in faccia all’offerta “indecente” in arrivo da Torino per Opel. Al contrario, la proposta di dar vita ad un polo auto da 80 miliardi di dimensioni globali finanziato solo per un miliardo dal proponente, cioè la Fiat, è stata ritenuta “interessante”. Eppure, non più tardi di dieci giorni fa l’improvvido commissario Ue Guenther Verheugen aveva usato termini sprezzanti per stroncare le velleità di Fiat. Che cosa è cambiato, da allora?
A) Innanzitutto, è ovvio, il successo negli Usa. Dal punto di vista economico l’affare Chrysler non è la manna, sia ben chiaro. L’azienda di Detroit chiuderà il 2009 con una perdita secca di 4,7 miliardi di dollari. Dopo l’uscita dal tunnel del Chapter 11, Chrysler dovrà risalire la china, dopo aver perduto altri punti di mercato. Gli effetti positivi di Fiat, in termini di prodotti, non si vedranno prima del 2011-12. Allora, se tutto andrà per il verso giusto, il gruppo torinese potrà raccogliere i primi frutti. In che misura? I report degli analisti parlano di 1,5-2 euro in più per ogni azione Fiat (schizzata oltre gli 8 euro sull’onda del successo in Usa e dell’operazione Opel) al raggiungimento del 51%, ovvero non prima del 2014.
B) Non è corretto, però, limitare l’effetto al solo impatto economico dei conti Chrysler. Quanto può valere, per un’azienda semisconosciuta oltre Atlantico, lo spot in tv del presidente degli Stati Uniti? Non è difficile ipotizzare che l’accoglienza in quel di Berlino sarebbe stata ben diversa se Marchionne non si fosse presentato con la dote di credibilità garantita dall’appoggio di Washington e dei numeri di un gruppo che, pur in condizioni di bilancio tutt’altro che brillanti, può contare su una massa critica di 3 milioni e mezzo di macchine distribuite in Usa, Europa ed America latina.
C) Al di là dell’effetto mediatico, conta la strategia. Fiat propone un merger che può dar vita ad un gruppo da almeno 5 milioni di vetture distribuite su almeno 11 marchi (Fiat, Alfa, Lancia, Ferrari, Maserati, Chrysler, Dodge, Jeep, Opel, Vauxhall e Saab), forti sia nelle “piccole” cilindrate che nei motori più impegnativi (vedi tecnologia Gm-Saab), tallone d’Achille di Fiat e, soprattutto, di Alfa. Un mix equilibrato, per giunta, sul piano geografico: Chrysler non ha presenza in Europa, Opel è presente solo nel Vecchio Continente. Gli impianti Fiat sono attivi nel sud Europa (più Tichy in Polonia), Opel-Gm vanta dieci stabilimenti, di cui 4 in Germania, quasi tutti a Nord (con l’eccezione della Spagna).
D) Certo, si tratta di aziende deboli. A partire da Fiat che, come ha ammesso in Germania lo stesso Marchionne, non dispone della massa critica necessaria per garantirsi un futuro profittevole da sola. In particolare, non basta produrre 5-6 milioni di vetture (la soglia minima per sopravvivere). Occorre creare piattaforme comuni su cui sfornare almeno un milione di pezzi ciascuna, come già fanno altri gruppi (in Volkswagen sono state prodotte 20 milioni di auto su undici piattaforme).
E) I soldi? In un’epoca normale si chiedono in banca. Ma questa non è una stagione normale. Gli Stati sono pronti a sostituirsi come fornitori finanziari perché nessuno può consentirsi, a breve, il collasso dell’auto. Lo stesso vale per i sindacati, a seconda del potere economico e politico di cui dispongono nei vari paesi. La finanza? Seguirà. Come ha scritto Barron’s «nessun creditore di Chrysler si sarebbe lamentato se avesse goduto delle condizioni offerte al sindacato». Ma il mondo del denaro, di questi tempi, non ha molti atout da giocare.
F) Ma la Borsa, è la convinzione di Marchionne, saprà comunque apprezzare l’offerta di un nuovo colosso delle quattro ruote. E ha buone ragioni per crederlo, mister Fiat: meglio investire in azioni piuttosto che in crediti a rischio…
G) Il ricorso al mercato azionario, poi, può offrire un opportuno sfogo al nazionalismo economico. Nulla vieta che i partner tedeschi, qualora lo desiderino, acquisiscano più peso azionario nella nuova Big Fiat. In fin dei conti, poi, la formula mista Italia-Germania, ha retto in Unicredit anche allo stress della crisi bancaria. Perché non ripetere l’operazione nelle quattro ruote?
H) Marchionne come Profumo, dunque. Ma alle spalle l’ad del Lingotto ha un socio di maggioranza, Exor, che ha sposato in pieno la sua filosofia, pur consapevole che l’esito finale della strategia non è solo lo spin off dell’Auto ma la progressiva perdita di controllo da parte della dinastia Agnelli dell’Auto. Un sacrificio accettabile, anzi auspicabile.
I) Dal 1973, infatti, l’industria dell’auto non ha più creato valore. Ovvero, i successi di una casa sono stati conseguiti a danno dei concorrenti. Per il gruppo Agnelli si è trattato di un grosso salasso finanziario e di un peso ingombrante nelle strategie di sviluppo. Ma l’Auto, nonostante le tentazioni di Umberto Agnelli, non poteva essere lasciata al suo destino. Altro conto, però, è la confluenza, con il marchio Fiat Group, in un gruppo di dimensioni mondiali in cui Exor avrà comunque una partecipazione rilevante, inserita in un sindacato di comando.
L) Il successo in Opel, dunque, potrebbe ridisegnare il capitalismo italiano. Il clan Agnelli/Elkann potrebbe seguire le orme di un altro illustre casato famigliare: gli svedesi Wallemberg. Anche loro, a suo tempo, uscirono da Electrolux, dalle quattro ruote e dalla meccanica in genere per concentrarsi nella finanza, nel ventura capital e nel mondo pharma. Tutte attività ad alta redditività. Quel che serve alla Fiat, vecchia o nuova, grande o piccola che sia.