La lotta “coordinata” ai paradisi fiscali ed al segreto bancario – annunciata in pompa magna al G20 tenutosi a Londra ai primi di aprile, cui ha fatto seguito l’immediata classificazione da parte dell’Ocse degli Stati in diverse liste (bianche, grigie e nere), a seconda del grado di aderenza agli standard internazionali in materia di trasparenza bancaria e scambio di informazioni – segna il passo, e ciascun paese tende a procedere in maniera autonoma, difendendo i propri (confessabili o meno) interessi.
Anche a livello europeo, il raggiungimento di una intesa in materia di cooperazione fiscale e su una possibile strategia comunitaria condivisa di contrasto alla concorrenza fiscale dannosa appare al momento improbabile, tenuto conto che eventuali decisioni devono essere comunque prese all’unanimità. E le scintille tra i responsabili europei delle finanze, nel corso dell’ultima burrascosa riunione Ecofin, dimostrano come si sia lontani da una posizione comune in materia. Ed in effetti Giulio Tremonti, conversando con i giornalisti al termine della riunione, ha confermato che l’orientamento sia quello di procedere in ordine sparso. «Bisogna eliminare i rifugi comodi – ha dichiarato il ministro – e credo sia giunto il momento che ogni Paese faccia un po’ per conto suo. Noi stiamo studiando azioni per far valere la sovranità fiscale, che resta nazionale”.
Il Governo italiano, quindi, sta elaborando una propria ricetta di contrasto all’evasione tributaria internazionale, che dovrebbe comprendere, quali ingredienti principali, la messa a punto di una nuova “lista nera” italiana dei centri non cooperativi in materia fiscale (che però andrebbe quanto meno coordinata con le varie liste – bianche e nere – già presenti nell’ordinamento), l’inversione dell’onere della prova (nel senso di ritenere, salvo prova contraria, frutto di evasione fiscale i redditi prodotti o depositati in tax havens), un inasprimento delle sanzioni ed eventualmente nuove disposizioni in materia di società controllate/collegate all’estero.
Ma la ricetta di Tremonti potrebbe poi arricchirsi – sulla falsariga di analoghe misure allo studio in altri paese europei e negli stessi Stati Uniti – di un nuovo ingrediente, che poi così nuovo non è, trattandosi della riedizione, seppur in versione riveduta e corretta, dello scudo fiscale per favorire l’emersione ed il rientro – a fronte del pagamento di una sanzione contenuta – della ricchezza (denari, immobili, titoli e investimenti finanziari) detenuta illecitamente all’estero.
Nelle due precedenti edizioni dello scudo fiscale vennero fatti riemergere complessivamente poco più di 80 miliardi di euro, con un beneficio diretto per l’erario pari a 2 miliardi di euro (e benefici indiretti decisamente superiori).
Al momento non ci sono ancora indiscrezioni attendibili sulla struttura dell’eventuale scudo-ter e, in particolare, sulla misura della sanzione richiesta ai contribuenti per regolarizzare la propria posizione (l’aliquota era stata fissata al 2,5% in passato).
L’eventuale nuovo scudo fiscale avrebbe comunque una duplice finalità. Da un lato, recuperare risorse indispensabili per la ricostruzione in Abruzzo (ed in effetti sembra essere proprio questa una delle motivazioni che sta spingendo il Governo a valutare attentamente l’ipotesi). E, dall’altro, rendere disponibile nuova liquidità da immettere nelle attività economiche (soprattutto laddove si prevedesse un vincolo sull’utilizzo dei capitali di ritorno).
Per formulare un giudizio sensato sulla strategia di Tremonti occorre ovviamente attendere i relativi provvedimenti. Un paio di considerazioni, comunque, possono essere formulate fin da ora. Se è ragionevole attendersi un successo dello scudo-ter (in termini di gettito e di liquidità immessa nel sistema), anche se il risultato dipenderà comunque dalla misura della sanzione prevista, non altrettanto può dirsi delle misure allo studio per avversare, unilateralmente, l’evasione fiscale internazionale, posto che una strategia efficace di contrasto non può prescindere da una cooperazione tra gli Stati.