CORRIERE/ Perché i superstiti del “salotto buono” lasciano Rotelli fuori dal patto?
È il “patto dell’assurdo” o quello “della vergogna”? Il tema in discussione è il “patto di sindacato” di Rcs-Corriere della Sera. Ne parla GIANLUIGI DA ROLD

È il “patto dell’assurdo” o quello “della vergogna”? Dipende dai gusti e della dichiarazioni di alcuni finanzieri e analisti. Il tema in discussione è il “patto di sindacato” di Rcs-Corriere della Sera, cioè dell’azienda che controlla il giornale più autorevole in Italia, quello che meglio offre all’estero dell’Italia in materia di informazione scritta. Al momento questo “patto di sindacato” è rappresentato dalle seguenti realtà: Mediobanca con il 13,699 percento; Fiat con il 10,291 percento; Gruppo Italimmobiliare (Pesenti) con il 7,419, suddiviso tra Franco Tosi (5,133 e Italcementi (2,286); Dorint Holding di Della Valle con il 5,403; FonSai di Ligresti con il 5,252; Pirelli&C. con il 5,239; Intesa-San Paolo con il 4,927; Mittel con l’1,282; Generali con il 3,713; Sinpar con il 2.038; Merloni, con il 2; Eridano Finanziaria con l’1,228 e Edison con l’1,045. Complessivamente, il “patto di sindacato” controlla il 63,54 percento del capitale di Rcs e giustifica il detto “non succede nulla che il patto non voglia”. Il finanziere franco-tunisino, Tarak Ben Ammar, qualche tempo fa, definì questo “patto” come “una sorta di club di tennis esclusivo che non c’entra nulla con l’economia moderna”.
Stupisce che in questo “patto”, tanto allargato, non ci sia Giuseppe Rotelli, soprannominato il “re delle cliniche lombarde”, che possiede un pacchetto di azioni pari all’11,02. Il 3,52 percento è stato preso in carico a 4,51 euro e il restante 7,5 percento a una media di 3,91 euro. Tanto per fare un esempio, il valore del titolo Rcs valeva ai tempi della “scalata” di Stefano Ricucci e dei cosiddetti “furbetti” molto di più dell’attuale 1,17 euro. Anzi, proprio con il Ricucci rampante, sfondò addirittura quota 6 euro. In brutale sintesi, se Rotelli dismettesse, attraverso la sua “Pandette”, tutte le oltre 117 milioni di azioni di cui è in possesso, farebbe letteralmente un “bagno di sangue” per centinaia di milioni di euro.
Di che male si è macchiato Rotelli per non potere entrare nel “patto di sindacato” del Corriere? Nessuno riesce bene a comprenderlo. Forse porta i “calzini corti”, oppure abiti sdruciti non compatibili con l’ex “salotto buono” della finanza italiana. Ex socialista, tra l’altro non craxiano, Rotelli ha investito bene nella sanità e ha sempre avuto un pallino per l’editoria, tanto da avere, anni fa , pronta la redazione per un quotidiano da lanciare in start-up attraverso i suoi “day-hospital”. Alla fine ha preferito investire su Rcs mentre i “furbetti” tentavano la scalata.
Secondo uno dei “pattisti”, Massimo Pini di FonSai (Ligresti), è veramente un’assurdità che Rotelli non venga cooptato nel “patto di sindacato”, sia per la grande partecipazione che ha nel capitale sociale, sia per il suo intervento fatto in momenti particolari: “Bisognerebbe fargli un monumento”. Ma, anche quando Massimo Pini pone la questione, gli altri soci stortano il naso o si trincerano dietro al fatto che “il patto” va bene così. È il caso di Vittorio Merloni, Luca di Montezemolo, Diego Della Valle e la falsa indifferenza di molti altri.
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Ora, questo “patto di sindacato”, anche alla luce del rifiuto a Rotelli, lascia spazio ad alcune riflessioni. In primo luogo ci si può chiedere se il mestiere dell’editore possa combaciare con una ammucchiata di realtà finanziarie e industriali e non costituire, in un “paese normale”, un’anomalia che sconfina in un chiaro conflitto d’interessi. Poi vi è da considerare gli spazi di libertà che il grande giornale può garantire. Difficile che i proprietari di banche, assicurazioni, industrie di cemento, di scarpe, di automobili e di cucine lascino che si parli male (se è il caso) di tutte queste loro cose. Ma il giornale non dovrebbe essere solo il “wacht-dog” della cosiddetta Casta politica, ma anche della classe dirigente imprenditoriale. Va dato indubbiamente atto ai vari direttori del Corriere, compreso Ferruccio De Bortoli, di saper mantenere una linea di indipendenza e di critica che onora, nei limiti del possibile, il buon giornalismo.
Ma c’è da aggiungere che se si considera che il 63,54 percento del capitale sociale è bloccato dal “patto di sindacato”, l’11,02 percento da Rotelli, un’altra parte da fondi e da “presenza mascherate”, il flottante a disposizione del mercato si riduce un po’ troppo. Secondo i canoni classici, un’azienda quotata in Borsa dovrebbe avere un flottante che oscilla tra il 25 e il 30 percento. Secondo gli analisti il flottante di Rcs, per gli scambi di volume, si aggira al momento intorno al 5 e 10 percento. Non proprio un esempio di liberismo tanto predicato dalle colonne del quotidiano di via Solferino.
Infine, scontato che il “patto di sindacato” resta una “realtà che appartiene al teatro dell’assurdo si capisce sempre meno l’ostracismo nei confronti di Giuseppe Rotelli che, dopo Mediobanca, è un altro azionista di riferimento. A meno che non si pensi che Rcs, con il Corriere e la Gazzetta, siano da considerarsi “cosa loro”, cosa dei superstiti del “salotto buono”. Il problema resta aperto, con Luca Cordero di Montezemolo che esce dal “patto” ma non dal management, sostituito dal giovane John Elkann per ribadire che Rcs (casa editrice) resta un “investimento strategico” della Fabbrica Italiana Automobili Torino. È vero che in Italia la politica è passata, secondo una definizione cossighiana da “Shakespeare ai Baci Perugina”, ma anche la classe imprenditoriale non scherza affatto con le sue continuità costituite ormai da scheletri.
Intanto i conti non sembrano andare bene. per colpa della crisi si è passati da una capitalizzazione di oltre 5 miliardi a quella attuale di quasi 900 milioni di euro. Ma si perde ancora.
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