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Home » Economia e Finanza » IL CASO/ Da imprese e famiglie la “ricetta” contro la crisi

  • Economia e Finanza

IL CASO/ Da imprese e famiglie la “ricetta” contro la crisi

Gianfranco Fabi
Pubblicato 15 Ottobre 2011
Operai_Cingolo_PPR400

Foto Imagoeconomica

Il problema dell’Italia sembra essere quello della crescita economica. Per risolverlo, spiega GIANFRANCO FABI, non servono politiche keynesiane o reaganiane

La crescita. Finalmente sembra ormai divenuta convinzione comune che sia questo il problema di fondo dell’Italia, quello da cui derivano tutti gli altri problemi: dalla difficile gestione del debito pubblico alla disoccupazione, dal divario Nord-Sud alla pressione fiscale sempre più elevata. Il nostro Paese, infatti, da almeno quindici anni non cresce più se non a percentuali che non superano l’1% e che non sono nemmeno in grado di compensare i periodi di forte recessione come quello del 2009. Ora l’industria italiana infatti viaggia, per esempio, al 90% rispetto al livello di produzione raggiunto nel 2005.


Olli Rehn (Bce): "È più probabile che l'inflazione si attenui"/ "Asset russi? C'è una strada per usarli"


Ma aver coscienza del problema è fare solo un piccolo passo per la sua soluzione, che non è per nulla facile, né può essere immediata. Il dibattito, infatti, sembra regolarmente di fronte a un solo bivio.

1) La ricetta “keynesiana”. Più spesa pubblica per creare posti di lavoro anche inutili (“pagare operai che scavino buche di notte e altri operai che le riempiano di giorno”) per accrescere il reddito disponibile e con questo avviare il circolo virtuoso: maggiori consumi, più produzione, più occupazione, più redditi e così via. In realtà, Keynes ha teorizzato sì l’intervento dello Stato, ma per finalità strettamente congiunturali, in modo da contrastare particolari momenti di crisi.


“Nessun patto occulto MPS-Mediobanca”/ Consob chiude le indagini: “Non è emerso alcun indizio”


2) La ricetta “reaganiana”. Ridurre le tasse in modo da offrire maggiori risorse finanziarie alle famiglie e alle imprese e rendere più facile la ripresa dei consumi e degli investimenti. I sostenitori di questa teoria affermano che attraverso la tassazione della maggiore ricchezza prodotta si potrebbe compensare la diminuzione del gettito provocata dai tagli fiscali.

Queste due ricette hanno, almeno a breve termine, un effetto comune: da una parte aumentano la spesa, dall’altra diminuiscono le entrate e così si crea un disavanzo pubblico sempre più ampio e gestibile con sempre maggiori difficoltà. I costi sono così immediati e sensibili, mentre per valutare i benefici è necessario un tempo decisamente più lungo (come ha sottolineato su queste pagine Raffaello Vignali).


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Allora è forse necessario andare oltre i possibili stimoli finanziari, peraltro difficilmente proponibili in un momento come questo, per ricercare di affrontare quei nodi strutturali dell’economia che hanno determinato la stagnazione degli ultimi anni e attraverso i quali potrebbe passare l’auspicata inversione di tendenza.

Si possono così indicare almeno otto fattori di crisi:

1) un tasso molto limitato di crescita della popolazione, che anzi sarebbe negativo senza l’apporto dell’immigrazione;

2) una scarsa propensione all’innovazione con una spesa molto bassa, sia da parte dello Stato, sia da parte dei privati per la ricerca e lo sviluppo;

3) una forte carenza di infrastrutture tecnologiche (come la banda larga);

4) la presenza di ostacoli normativi, amministrativi, burocratici alla progettualità e alla crescita dimensionale delle imprese;

5) un inaridirsi dei canali di finanziamento alle imprese con la tendenza delle banche a sviluppare attività finanziarie a breve termine;

6) un cuneo fiscale (fisco+contributi) che rende molto ampio il divario tra il costo del lavoro per le imprese e redditi netti per i lavoratori;

7) un’incapacità del sistema giudiziario, soprattutto sul fronte civile, a dare un quadro di certezze all’attività economica con tempi certi, soprattutto sul fronte della giustizia civile

8) una forte presenza, non solo nelle aree meridionali, di una criminalità organizzata sempre più presente nelle attività economiche.

Interventi per la crescita dovrebbero aggredire questi fattori di crisi, anche perché senza affrontare questi nodi anche eventuali interventi congiunturali (keynesiani o reaganiani) rischierebbero di essere inconcludenti e inefficaci, oltre che costosi. Si tratta invece di valorizzare i punti di forza della realtà italiana: lo spirito imprenditoriale, la propensione al risparmio, la rete di banche locali, il gusto del bello, la fitta trama di solidarietà. Questo vuol dire far partire la crescita dal basso con una vera politica per le famiglie e creando le condizioni più favorevoli per far nascere e crescere le imprese: due elementi, le famiglie e le imprese, che proprio perché sono punti di forza sono tanto più importanti ora che sono diventati punti critici. Punti su cui la politica sembra non avere tempo di fermarsi.


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