Alla fine il Portogallo ha ceduto e chiesto aiuto all’Ue. Servirà? Certamente la capitolazione di Lisbona rappresenta il sintomo più visibile della crisi nell’eurozona, ma, ammesso che non ve ne siate accorti, la decisione presa da Francoforte di alzare i tassi di interesse potrebbe avere un impatto decisamente corrosivo sul futuro dell’Unione, a partire dai tre Stati salvati e del quarto in sala d’attesa, la Spagna.
Un’analisi dell’agenzia di consulenza londinese Fathom, infatti, dimostra che una serie di incrementi dei tassi potrebbe gettare Irlanda, Grecia e lo stesso Portogallo in default, poiché i tassi di interesse applicati ai salvataggi tracciano esattamente l’andamento del tasso di prestito della Banca centrale europea. «Se la Bce continuerà con un politica di contrazione, l’impatto sarà chiaro: il default sarà più o meno inevitabile e la Grecia è già oggi su una strada insostenibile», dichiara Danny Gabay, direttore della Fathom. Ma ciò che allarma maggiormente è che, a detta dell’agenzia di consulting, anche la Spagna resta tremendamente vulnerabile, nonostante le rassicurazioni sulla natura del debito e sullo stato di salute dell’economia giunte la scorsa settimana da Madrid.
Il roll over sui debiti che le banche iberiche dovranno affrontare quest’anno è pari al 5% del Pil e oltre il 9% nel 2012, dato a cui va a sommarsi la necessità di finanziamento del governo. Se si verificherà un incremento del 2% all’interesse che oggi Madrid paga sul mercato obbligazionario, il Paese precipiterà in chiara crisi fiscale: e questo capolavoro potrebbe compierlo proprio la Bce continuando ad alzare i tassi, senza che gli investitori debbano perdere ulteriore fiducia nella Spagna.
La svalutazione globale che potrebbe seguire a un serie di defaults sarebbe, stando a Fathom, pari al 30%: «Guardare implodere queste nazioni sarebbe il colpo di grazia alla fiducia sui mercati». E il buon Trichet ha già fatto capire che, stante un dato inflazionistico del 2,6% nei diciassette paesi dell’eurozona, i tassi potrebbe continuare a salire: il caro Jean-Claude non ha capito che scontiamo inflazione importata e non generata da domanda o crescita domestica, quindi si comporta come se fosse alla guida della Banca centrale di una locomotiva lanciata in corsa. Contro un muro, però. L’aumento del prezzo del denaro, infatti, non farà altro che aumentare la scissione tra l’Europa “core” e quella periferica: molto del debito che ha portato Grecia, Irlanda e Portogallo sull’orlo del fallimento è detenuto da banche dell’Europa “core” e questo non farà altro che spezzare l’Europa in due, visto che quella attuale è una crisi bancaria e non sovrana, con le banche tedesche in prima linea.
L’adozione dell’euro avrebbe dovuto trasformare italiani, spagnoli, greci e portoghesi in piccoli tedeschi, evitando che a ogni piè sospinto dovessero svalutare le loro monete per riguadagnare competitività e quote di mercato. Non è andata così, invece, visto che Germania e Francia hanno loro per prime infranto il patto di stabilità e crescita e che i tassi d’interessi a zero nell’eurozona hanno portato a un insostenibile boom del credito al consumo, pompando i prezzi e seminando i prodromi dell’attuale crisi fiscale. Insomma, al di là delle minacce del nostro governo verso un’Europa che è tutto tranne che politica, la tentazione di qualche Stato di andarsene potrebbe diventare davvero forte se il volume del cosiddetto debt burden continuerà a salire.
Gerard Lyons, capo economista alla Standard Chartered, lo dice chiaramente: «Penso che ormai ci stiamo muovendo verso una prospettiva di Europa a due velocità, la Germania vuole questa opzione per ridare un profilo filo-tedesco all’Unione. La conseguenza di questo, ovviamente, è che qualche nazione potrebbe decidere di andarsene». E i pareri al riguardo appaiono sempre più univoci. Al termine dell’Ecofin della scorsa settimana, Roger Nightingale, economista alla Pointon York, ha scritto in una nota ai clienti che «nessuno sa se la Spagna avrà bisogno di aiuto esterno nei mesi a venire. Ciò che tutti sanno, però, è che la decisione della Bce di alzare i tassi intensificherà di molto le sue difficoltà. La Spagna è diversa da Irlanda e Portogallo, ci dicono da Madrid. La nostra economia è fondamentalmente sana, ci ricordano ogni giorno. Possiamo prendere seriamente queste parole? Tristemente, no».
Il tasso di disoccupazione giovanile in Spagna è al 40% e quello generale al 20% e nonostante il debito nazionale resti relativamente basso (ma alto quello privato e delle autonomie locali), le lezioni irlandese e portoghese ci insegnano che il presente ormai non rappresenta più un indicatore credibile per il futuro. Anche perché il tasso di interesse ufficiale spagnolo è abbastanza basso, ma quello effettivo non lo è: per il settore pubblico, le aziende e i cittadini, è alto. E ci sono tutti i presupposti per cui continui a salire. Insomma, anche per Nightingale, «l’ipotesi di un’Europa two-tier ormai è nei fatti, è stato creato un precedente». Ma, nonostante tutto questo, l’euro resta record e non scende da quota 1,44 sul dollaro: cosa sta succedendo, quindi? Sta succedendo che il biglietto verde e lo yen stanno collassando e i tassi di interesse in America e in Giappone stanno salendo in maniera vertiginosa. In parole povere, per ogni miliardo di dollari, per ogni triliardo di yen stampato e iniettato a forza nel sistema, il costo in termini di inflazione e aumento dei tassi reali sta assumendo una configurazione parabolica.
E la stampa autorevole, cosa dice? Ci spaccia come accordo bipartisan storico quello raggiunto dal Congresso americano per imporre un taglio da 80 miliardi di dollari (come se l’Italia tagliasse 6-7 miliardi di euro) del budget, sotto la minaccia di mandare in fallimento il Paese: quella cifra è ridicola – ancorché formalmente enorme – rispetto alla montagna di miliardi stampati di fresco ogni singolo giorno dalla Fed. Il tasso sui titoli di Stato americani a 30 anni è al 4,65% e sta salendo di ora in ora e quello trentennale è un tasso chiave perché definisce il prezzo dei mutui americani. E il dollar index? E il prezzo della benzina alla pompa? E quello del petrolio WTI? Ma soprattutto, le materie prime?
Fatevi un’idea da soli (con il grafico qui sopra) sugli incrementi annuali: con l’argento a 41,22 dollari l’oncia e l’oro a 1470 dollari, qualche banchiere che si reputava più furbo degli altri sta dormendo sonni molto agitati (pur sapendo che, alla fine, la Fed interverrà in un modo o nell’altro in ossequio al “too big to fail”): ci sarà un altro, il terzo, quantitative easing oppure gli Stati Uniti sceglieranno la strada dell’austerità mandando a gambe all’aria Wall Street? L’azzardo è grande e un errore, a questi livelli, sarebbe letale: forse, per trovarci a vivere in un mondo completamente diverso da quello che conoscevamo, non ci sarà bisogno né di una guerra, né della profezia Maya. Basteranno la finanza drogata dallo Stato, l’egoismo politico e le banche commerciali che agiscono come merchant bank.