FINANZA/ Ecco perché gli Usa stanno peggio della Grecia

- Mauro Bottarelli

Sia gli Stati Uniti che l’Europa sono alle prese con sfide difficile riguardanti il livello del debito pubblico e il rischio default. L’analisi di MAURO BOTTARELLI

Trader_Dietro_MonitorR400 Foto Ansa

Destino comune e parallelo per Grecia e Stati Uniti? Detta così sembra una follia, ma a nessuno, ieri, è sfuggita la contemporaneità sul nulla di fatto emerso all’Eurogruppo riguardo i termini di coinvolgimento del settore privato nel nuovo salvataggio ellenico e la richiesta di Barack Obama affinché la comunità del business intervenga direttamente presso i regolatori per far capire loro che un default sul tetto di debito avrebbe conseguenze drammatiche. Insomma, la resa dello Stato di fronte al mercato: Dio sia lodato! Al di là degli slogan e delle provocazioni, quanto sta accadendo negli Usa appare senza precedenti.

Il consigliere economico della Casa Bianca, Austan Goolsbee, sta tenendo un frenetico round di incontri con rappresentanti della comunità finanziaria questa settimana, secondo pressing in meno di un mese affinché fondi e banche d’affari si sostituiscano alla dialettica parlamentare e obblighino il Congresso ad alzare il tetto di debito nazionale di 14,3 trilioni di dollari entro il 2 agosto, quando di fatto il Tesoro non sarà più in grado di pagare i conti governativi (e già ora sta finanziando le nuove emissioni mettendo mano ai fondi pensione federali).

Come scritto un paio di settimane fa, il più grosso rischio per gli Usa è rappresentato dalla comune percezione in casa repubblicana che un breve e controllato default sarebbe tollerabile se portasse con sé un taglio draconiano dei deficit di budget, quest’anno proiettato verso la cifra monstre di 1,4 trilioni di dollari. Il problema è che questa vulgata aperturista è stata lanciata proprio da un famoso investitore ed ex socio di George Soros, Stanley Druckermiller, il quale la scorsa settimana è tornato a definire dalle colonne del Wall Street Journal «non catastrofica» l’ipotesi di un default, nei fatti costringendo la Casa Bianca a chiedere rinforzi da parte dell’ala democratica della corporate America.

Inoltre, contravvenendo a una ben sedimentata abitudine, Washington ha pubblicamente citato uno studio del think tank Third Way (di cui anche ilsussidiario.net ha dato conto), in base al quale un default trascinerebbe automaticamente il paese in una nuova recessione: detto fatto, poche ore dopo il segretario al Tesoro, Timothy Geithenr, ha utilizzato questo argomento in una lettera al Congresso. Per ora i mercati appaiono tranquilli, ovvero si dicono certi che il tetto di debito verrà alzato in tempo: il rendimento dei Treasury a 10 anni martedì viaggiava attorno al 3%, segnale di forte domanda.

La battaglia interna, a dispetto del silenzio dei media, negli Usa è però al calor bianco. Pubblicamente sia il presidente Obama che il suo team economico hanno più volte avvertito i regolatori che ogni mancato pagamento di obbligazioni governative farebbe schizzare al rialzo i tassi di interesse, rispedendo la nazione nel baratro del 2009, un qualcosa di cui i repubblicani dovranno portare il peso sulle spalle. Per far capire la portata di quanto sta accadendo, da settimane giganti come JP Morgan Chase, Bank of America e Caterpillar stanno dando vita a una campagna di lobbying senza precedenti presso i regolatori, il cui risultato finora è stato però un nulla di fatto.

Insomma, la Grecia dovrebbe fisicamente essere salvata anche dai soldi del settore privato (ovvero con l’estensione di sette anni delle maturazioni obbligazionarie su base obbligatoria come vorrebbe la Germania o “volontaria” come chiedono Francia e Bce), mentre in America il presidente del “Yes, we can”, del “non sto dalla parte di chi fa profitti durante la crisi” va in ginocchio dagli stessi bankster per chiedere il loro aiuto nel convincere i Repubblicani: questa è l’America di oggi. Ma le differenze tra Atene e Washington sono anche altre. Per l’ex capo economista del Fondo monetario internazionale, Raghuram Rajan, infatti «l’effetto a cascata di un default greco sul debito può essere contenuto se i leader europei raggiungono un accordo che permette alla ristrutturazione di essere compiuta in maniera ordinaria».

Per Rajan, «uno dei vantaggi della lunghezza eccessiva di questo processo di risoluzione della crisi è che molte entità del settore privato hanno nel frattempo ridotto la loro esposizione alla Grecia. Oggi, infatti, l’estensione dell’esposizione bancaria europea verso Atene è molto più limitata di quanto fosse sei mesi o un anno fa, quindi il costo di un default greco e della ristrutturazione potrebbe essere assorbito dal settore bancario. Se la ristrutturazione del debito, ormai quasi inevitabile vista l’incapacità dei politici greci di portare avanti le privatizzazioni e contenere il budget, avverrà in un modo al quale le banche e i mercati sono preparati, anche se non pubblicamente ma a livello privato, le conseguenze sono decisamente contenibili». In caso contrario, però, «se la ristrutturazione si sostanzierà a causa della rottura del dialogo tra le parti, allora tutto si complicherà, poiché questo evento suggerirà ai mercati che le implicazioni si sposteranno direttamente su Irlanda e Portogallo prima e su altri paesi in un secondo tempo. A quel punto, giungere a una soluzione sarà decisamente più complicato».

Insomma, la soluzione ci sarebbe, ma contemplerebbe perdite per il sistema bancario. E come abbiamo scritto martedì, questa ipotesi è ben accetta per la Germania, le cui banche si sono ricapitalizzate grazie al regalo di Ben Bernanke attraverso il QE2, ma invisa come l’aglio a un vampiro a Bce e Francia, la prima a rischio insolvenza a causa delle svalutazioni e del collaterale spazzatura che ha in pancia e continuerà ad avere se il reprofiling porterà i titoli greci a continuare nella loro funzione di garanzia per ottenere capitale a leva, la seconda perché ieri Moody’s ha anticipato chiaro e tondo di aver messo nel mirino per un downgrade Societé Generale, Credit Agricole e Bnp Paribas a causa della loro esposizione alla Grecia (e quindi delle loro potenziali perdite in caso di prolungamento delle maturazioni o taglio dei rendimenti).

Detto fatto, borse europee in rosso trascinate proprio dai bancari francesi in picchiata: la grandeur di chi viene in Italia a fare shopping, con la spudoratezza di annunciare l’Opa su Parmalat mentre Berlusconi e Sarkozy stanno per incontrarsi a Roma, potrebbe finire presto in cantina, in accoppiata con quel Belgio dai conti sballati e dalle banche sovraesposte – Dexia sta tremando da settimane – che ilsussidiario.net aveva messo nel mirino già lo scorso anno. Bye bye Pigs, il prossimo acronimo della crisi potrebbe essere Fb: non Facebook, ma Francia-Belgio.

Se quindi la crisi greca è seria ma risolvibile, quella degli Stati Uniti porta con sé rischi occulti ben più gravi. A denunciarli, in un’intervista a Cnbc, Bill Gross, capo di Pimco, il più grande fondo obbligazionario del mondo, secondo cui «gli Stati Uniti sono conciati molto peggio della Grecia e di tutte le nazioni europee alle prese con problemi di debito». Per Gross, infatti, «l’opinione pubblica è tutta focalizzata sul debito pubblico nazionale, che è di 14,3 trilioni di dollari. Ma questa cifra non include il denaro garantito per i programmi Medicare, Medicaid e Social Security, il cui combinato arriva a circa 50 trilioni di dollari, stando alle cifre del governo. Inoltre, Washington è legata ad altri debiti come quelli dei programmi relativi al salvataggio del sistema dopo la crisi del 2008 e 2009. Messe tutte insieme queste voci, il conto arriva a circa 100 trilioni di dollari, una traiettoria fiscale ingestibile. Pensare, infatti, di poter ridurre questa cifra nell’arco di uno o due anni è un qualcosa di irrealistico. Nella pancia degli Usa c’è molto di più e di peggio della Grecia, c’è di più e di peggio di qualsiasi altra nazione sviluppata. Abbiamo un problema e dobbiamo risolverlo in fretta».

Anche perché la domanda che gli Usa si pongono è la seguente: chi comprerà Treasuries alla fine del programma di QE2 della Fed? Le banche hanno già detto che ridurranno l’utilizzo di obbligazioni del Tesoro come collaterale contro i derivati e altre transazioni e Gross non ha dubbi nel rispondere: «Certamente non Pimco e probabilmente nemmeno i fondi obbligazionari di tutto il mondo. D’altronde, perché un investitore non dovrebbe comprare obbligazioni canadesi o australiane, paesi con uno stato patrimoniale migliore e con tassi d’interesse più alti dell’1,2% o anche del 3%? Semplicemente, non avrebbe senso». Ma se non si trovasse una soluzione rapida e controllata alla crisi greca e questa dovesse innescarne una a livello globale, quale sarebbe il bene rifugio a livello obbligazionario per gli investitori mondiali? «Il debito tedesco, non certo quello statunitense», sentenzia Gross.

Giorno dopo giorno, come vedete, i motivi reali – l’hidden agenda – del comportamento tedesco nella gestione della crisi ellenica, emergono sempre più chiari. Bye bye Paris, l’asse renano è morto e la Francia è l’ultima vittima sacrificale della nuova egemonia teutonica. L’avevamo scampata nel 1945, ora sarà molto più dura.

P.S. Tanto per farvi capire che aria tira, ecco le parole pronunciate ieri dall’amministratore delegato di Barclays, Roger Jenkins: «Ci sono seri problemi con l’unità europea del nostro istituto. Stiamo riducendo l’esposizione al mercato creditizio, non stiamo usando i depositi dei correntisti per investment banking, nel 2013 i tassi d’interesse saliranno di 100 punti base, la competizione si sta intensificando nel Regno Unito, il nostro istituto ha chiuso un’unità di pianificazione finanziaria, la ripresa economica sarà lenta, occorrerà un ristrutturazione per ridurre il numero del personale, la ristrutturazione in Spagna è complessa».

Ricordate cosa accadde nel 2007 quando Bear Stearns ammise di aver problemi con una sua unità? Quando un amministratore delegato arriva a dover confermare ufficialmente che il suo istituto non sta usando i soldi dei depositi per fare investment banking, siamo davvero sul Titanic.







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