I dati sulla disoccupazione, europea (11,6%) e italiana (10,8%, dato peggiore da venti anni a questa parte), emersi ieri non aggiungono nulla a quanto ho scritto martedì: il rigore ha generato solo più crisi, la medicina sta uccidendo il malato più del virus che lo ha contagiato. I dati del debito greco lo confermano: il prossimo anno l’economia ellenica si contrarrà del 4,5% e la ratio debito/Pil toccherà quota 189,1%. Complimenti alla troika e alle sue ricette.
In compenso, in sede di discussione sul budget Ue, alla minaccia di veto già avanzata dalla Gran Bretagna, si è aggiunta ieri quella francese, con Hollande sulle barricate per difendere gli scandalosi sussidi agricoli di cui godono i contadini d’Oltralpe. Evviva, siamo veramente in ottime mani.
La cosa che maggiormente mi inquieta, però, è il silenzio tombale che accompagna quella che è l’unica, vera notizia di questi giorni: la Gran Bretagna, di fatto, è fuori dall’Ue. Rimane membro a livello nominalistico, nulla di più. E, come scrissi penso almeno due anni fa, entro breve formalizzerà l’addio, probabilmente tornando nell’Efta e garantendosi così rapporti commerciali ed economici privilegiati con l’Ue, ma non soggiacendo alle regole del SuperStato tedesco.
E la questione più grave non è l’attacco all’Unione lanciato ieri da David Cameron durante il suo intervento ai Commons, con toni da far impallidire la Thatcher del vertice di Fontainebleu, né la guerra sul Budget, di fatto un classico della politica estera inglese, ma il fatto che sottotraccia Londra ha avviato le pratiche per chiamarsi fuori dal cosiddetto “Pillar III” della giurisdizione europea, ovvero le materie riguardanti giustizia e affari interni (il “Pillar I” regola il mercato unico mentre il “Pillar II” gli affari esteri).
Avete capito bene, la Gran Bretagna sta ritirandosi dal recepimento di 130 direttive, tra cui il mandato di cattura europeo, Eurojust e il Public Prosecutor europeo. Frutto della scelta compiuta a suo tempo da Tony Blair, il quale negoziò il diritto all’output dal “Pillar III” da esercitarsi prima che la Corte di Giustizia Europea ottenga primazia assoluta su queste materie nel 2014, divenendo di fatto la Suprema Corte del continente e svuotando di significato i vari legislatori e organi di giustizia nazionali. Theresa May, ministro della Giustizia britannica, ha scelto di utilizzare quel diritto di rinegoziazione.
Nessuno lo dice – salvo i media inglesi – ma lo strappo è dietro l’angolo. E non poteva che essere così, visto che la Common Law britannica e il garantismo in essa insito cozzano con istituti come il mandato di cattura europeo, il quale nel suo iter ha conosciuto varie mutazioni genetiche. Prima doveva riguardare soltanto atti legati al terrorismo, poi il cosiddetto “serious crime”, ovvero il crimine organizzato o di particolare gravità, poi materie come la xenofobia, magari un domani declinata anche in modo e tempo di euroscetticismo.
Insomma, rimbalzando tra Bruxelles e Strasburgo, la norma ha conosciuto un’ampliarsi preoccupante di fattispecie di applicabilità, alcune delle quali totalmente discrezionali e a rischio di cadere nel paradosso di punire anche reati meramente di opinione (il capitolo xenofobia e discriminazione si presta a svariate interpretazioni). Ma questo non basta: nella sua versione finale e interpretata, il mandato di cattura europeo può essere di fatto utilizzato anche per arrestare una persona che non ha pagato un biglietto ferroviario o una multa in un Paese europeo. Insomma, la stessa libertà di espressione potrebbe diventare vittima di un magistrato che chiederà la vostra estradizione senza doversi nemmeno scomodare portando delle prove.
Il SuperStato, quindi, è quasi pronto: unione fiscale, monetaria, bancaria e un bel super-giudice di kafkiana memoria. Un po’ troppo per la Gran Bretagna, la cui decisione di stare fuori dall’euro a Maastricht, di fatto anticipava la scelta, futura ma non troppo, di abbandonare del tutto la nave. Per dirla con le parole di William Hague, ministro degli Esteri britannico, “serve un cambiamento. Se non possiamo dimostrare che il processo decisionale può tornare all’attenzione dei Parlamenti nazionali, allora il sistema diventerà davvero democraticamente insostenibile”. E che la situazione sia ormai al punto di rottura, lo dimostra la nuova definizione di rapporti continentali che ha preso piede a Londra: “Buone staccionate, buoni vicini”.
Inoltre è di pochi giorni fa la notizia del netto recupero dell’economia in Gran Bretagna, che nel terzo trimestre è letteralmente rimbalzata fuori dalla recessione con un aumento del Pil dell’1% rispetto ai tre mesi precedenti, secondo la stima preliminare pubblicata dall’ufficio di statistica. Al balzo ha contribuito anche l’effetto congiunto delle Olimpiadi e del Giubileo della Regina: un recupero superiore a quanto si attendevano in media gli analisti, che pure avevano previsto una risalita del Pil. A guidare il rialzo ha contribuito innanzitutto il più 1,3% di produzione registrato nel settore dei servizi, a cui si è aggiunto un più 1,1% nell’industria mentre la produzione nelle costruzioni ha subito una nuova contrazione, pari al 2,5%.
Certo, gli analisti restano cauti, così come il premier David Cameron e lo stesso ministro delle Finanze e ammoniscono che la ripresa sarà lenta, ma la strada intrapresa sembra quella giusta. Il problema è che è una strada sempre più divergente da quella dell’Ue, a partire dal netto no di Londra alla Tobin Tax, scelta che nei fatti porterà flussi di denaro verso la Borsa di Londra e in partenza dalle piazze che avranno optato per questo provvedimento assolutamente controproducente, inutile e populistico.
Ne sono già certi gli intermediari finanziari e i gestori di sim, forse se ne faranno una ragione anche i politici prima che il danno sia compiuto del tutto e si regali a Londra una fetta di inflow finanziario enorme. Ne dubito, però. Certo, la Germania pare pronta a ritorsioni. O, forse, alla guerra. Secondo quanto pubblicato da Der Spiegel e mai smentito, infatti, il Ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, avrebbe in mente un piano di riforme di vasta portata per stabilizzare l’unione monetaria europea, anche attraverso la concessione a Bruxelles di poteri molto più incisivi sui bilanci nazionali. Ecco alcune idee.
1) Il Commissario europeo per gli Affari economici e monetari dovrà diventare altrettanto potente del Commissario alla concorrenza, il quale ha il diritto di prendere decisioni in modo indipendente, e nel prendere tali decisioni non necessita del consenso degli altri Commissari. Perché il commissario per gli Affari economici e monetari sia veramente indipendente nelle sue decisioni, occorre depoliticizzare la posizione del titolare dell’ufficio: ciò consentirebbe al Commissario di prendere decisioni in base al contenuto, piuttosto che agli interessi.
2) Al fine di rafforzare la posizione del Commissario per gli Affari economici e monetari, i singoli Stati membri dovrebbero cedere parte della loro sovranità di bilancio a Bruxelles. Secondo la proposta di Schäuble, il commissario per gli Affari monetari, ormai una delle cariche più potenti dell’Ue, sarebbe dotato di un potere di veto sui bilanci nazionali. La procedura potrebbe essere simile a questa: se uno Stato membro dell’eurozona invia la sua proposta di bilancio a Bruxelles e il Commissario considera il disavanzo di bilancio troppo alto, al Parlamento del Paese sarebbe richiesto di preparare un nuovo progetto.
Gli Stati membri conserverebbero la facoltà di decidere quali entrate aumentare e quali spese tagliare. In base alle norme attuali, invece, il potere della Commissione Europea si limita a formulare delle raccomandazioni agli Stati membri in materia di risanamento dei bilanci. Possibile? Quasi certo, stante la situazione attuale e l’appoggio totale di Angela Merkel al suo potentissimo ministro delle Finanze. Questo, però, presuppone che la Gran Bretagna giochi a favore. In caso contrario, non sarebbe possibile modificare i Trattati Ue e i governi dell’eurozona dovrebbero concludere un Trattato separato, come hanno recentemente fatto con il Fiscal Compact.
Non è che Londra, fiutata l’aria, abbia già messo in atto le contromosse? Attenzione, il silenzio che contorna una materia di questa importanza sui media è folle: si tratta del nostro futuro, dell’assetto stesso dell’Europa e della sua tenuta e sostenibilità democratica. E, forse nelle pieghe di questa guerra sta anche la volontà tedesca di tirare la crisi il più possibile per il lungo, perpetuando politiche di rigore totalmente folli ma in grado di ridurre in ginocchio Paesi come Grecia, Portogallo, Spagna e – forse – Italia.
A quel punto, il piano Schauble sarà spendibile e vendibile come l’unica ricetta per sfuggire all’apocalisse europea, esattamente come l’instaurazione di un governo tecnico per salvare il nostro Paese dal precipizio su cui stava ballando. Come ci ricorda spesso Mario Monti. Attenzione, in gioco c’è molto più di una crisi economica da cui uscire. Molto, molto di più.