«Il brusco incremento dell’Imu rispetto all’Ici, che in alcuni casi arriva a triplicare, nasce dalla decisione di utilizzare la cosiddetta Imposta municipale unica per sostenere sia i bilanci dello Stato che quelli dei Comuni. Questo crea un effetto distorsivo, aumentando la tendenza alla chiusura delle imprese e dei piccoli negozi in difficoltà». A osservarlo è Gianni Trovati, giornalista de Il Sole 24 Ore, autore di un approfondimento di tre pagine sulla nuova Imu. Dall’inchiesta emerge che buona parte dei Comuni stanno introducendo un’aliquota del 9,6 per mille, ben oltre il 7,6 per mille fissato come punto di riferimento dal governo Monti.
Trovati, gli incrementi dell’Imu rispetto all’Ici sono dettati dalla necessità, o penalizzano le aziende e i locatari molto più del dovuto?
Gli incrementi sono dettati dalle necessità di bilancio, anche perché una parte dei rincari Imu sono inevitabili per le nuove regole sul calcolo dell’imposta. Ma nello stesso tempo è anche vero che aziende e negozi sono danneggiati eccessivamente. L’Imu in quanto tale è costruita in modo tale da aumentare di molto già in partenza il costo rispetto all’Ici. In più, siccome sono stati tagliati i trasferimenti ai Comuni, i sindaci sono costretti ad aumentare le aliquote e il risultato è una mazzata molto pesante, soprattutto perché arriva in un momento di crisi economica. Poniamo il caso di un piccolo negozio di periferia, già in difficoltà perché i consumi crollano. In molti chiudono perché c’è la crisi, e il rincaro Imu è quindi peggiorativo rispetto a una situazione di per sé compromessa.
Quindi l’Imu porta le imprese a chiudere?
Aumenta la tendenza già in atto alla chiusura, o quantomeno alle difficoltà, sia dei piccoli esercizi commerciali sia delle piccole imprese. Entrambe hanno infatti notevoli difficoltà di accesso alle banche, che non fanno loro credito. A queste si aggiungono la crisi di liquidità, perché chi lavora con Comuni e Pubblica amministrazione non è mai pagato. In una condizione di questo genere, una tassazione così consistente produce effetti non trascurabili. Basti pensare che un’impresa che magari ha un semplice capannone, e non sto parlando della Fiat, viene a pagare decine di migliaia di euro l’anno in tasse.
Perché in alcune città come Milano i rincari Imu arrivano al 210%, mentre a Genova sono al 98%?
A Milano il livello di pressione fiscale era uno dei più bassi in tutta Italia, e quindi si parte da più lontano. L’introduzione di una nuova regola cancella le differenze che c’erano prima. La normativa introdotta dal governo Monti crea quindi una differenza superiore a Milano rispetto ai Comuni dove le tasse erano già alte in partenza. Inoltre, Milano è in grandissime difficoltà di bilancio, con un disavanzo corrente di quasi 600 milioni di euro, e deve portare le aliquote praticamente al massimo. Si passa così dal livello minimo dell’Ici al livello massimo dell’Imu. Questo crea quindi un cortocircuito che fa triplicare la tassazione.
Esistevano delle alternative per raggiungere il pareggio di bilancio senza dei rincari Imu così pesanti?
Le alternative esistono sempre, ma quella dell’Imu è stata una scelta politica operata a livello centrale. Quando è stato introdotto il decreto di Natale, il cosiddetto “decreto salva-Italia”, gli immobili sono stati utilizzati come leva principale per recuperare gettito. Concentrando tutto lo sforzo sugli immobili, è necessario che paghino tutti. Sia quindi i grandi proprietari immobiliari, sia la famiglia che ha solo la casa in cui abita. Il governo ha quindi spalmato in maniera non progressiva la richiesta fiscale su tutti. L’Imu vale complessivamente più del doppio dell’Ici, perché porta in tutto 22 miliardi di euro l’anno come base, contro i 9 miliardi dell’Ici. L’Imu è stata quindi utilizzata per sostenere sia i conti dello Stato, sia quelli dei Comuni. L’utilizzo di una stessa imposta per sostenere due bilanci ha fatto sì che le aliquote crescessero in misura così drastica.
Fino a che punto è corretto l’utilizzo di un’imposta municipale per sostenere i bilanci statali?
Creare un’imposta municipale di nome, ma non di fatto, perché metà va allo Stato con la cosiddetta quota erariale, non è certo il massimo della logica. È questo a creare una distorsione, perché i Comuni si vedono sottratta metà dell’imposta e quindi alzano l’aliquota per pareggiare i conti. È proprio a questo livello che c’è qualcosa che non funziona, perché alla fine chi paga è sempre lo stesso: il cittadino con la sua casa o il commerciante al dettaglio con il suo negozio.
(Pietro Vernizzi)