Lo scorso 10 maggio Ben Bernanke, attuale presidente del Consiglio dei Governatori del sistema della Federal Reserve Bank Usa, ha affermato: “Dall’inizio della crisi finanziaria, le banche [americane, ndt] hanno compiuto notevoli progressi nell’aggiustamento dei propri bilanci e nel rafforzamento del capitale. Il patrimonio corretto per i rischi e i leverage ratio delle banche di tutte le dimensioni sono concretamente migliorati e risultano superiori ai livelli precedenti. Fatto importante, le 19 maggiori banche, che presero parte nel 2009 agli stress test e alle successive verifiche, dispongono di un capitale maggiore e di migliore qualità rispetto a pochi anni fa. […] Gli intermediari finanziari a maggior rilevanza sistemica dovranno far fronte a requisiti di capitale e di liquidità significativamente più elevati e continuare a essere sottoposti a stress test”. La sicurezza che tali parole emanano non sembra tuttavia poggiare su basi granché solide.
Recentemente Fulvio Coltorti ha manifestato serie preoccupazioni, che io condivido, sull’efficacia delle regole decise dalle autorità americane per limitare i rischi del ripetersi di uno tsunami finanziario analogo a quello del 2008. Egli ricorda che solo un mese fa la Fed statunitense ha vietato la negoziazione in proprio di titoli, fissandone comunque la decorrenza dal luglio 2014. Anche degno di nota che lo stesso mese abbiano cominciato a circolare rumors di presunte forti perdite su negoziazioni di derivati da parte di JP Morgan Chase, una delle più grandi banche Usa.
Da qualche giorno le voci sono divenute un fatto acclarato: anche se l’entità delle perdite non è ancora precisata, il danno da fallimento della strategia speculativa posta in essere da JP Morgan Chase sembra aggirarsi fra i 2 e i 4 miliardi di dollari! Paul Krugman, celebre economista e convinto sostenitore del presidente Obama, paragona il comportamento della banca in questione a quello tenuto dalla grande compagnia assicurativa Aig (speculazione finanziaria sui mutui ipotecari) sino alla vigilia del crac dei mercati del 2008. Se la solidità di una tale banca dovesse essere messa in discussione piomberebbe di nuovo una cappa gelida ovunque.
La storia, dunque, si ripete e non a distanza di decenni, come è stato prima della deregulation decisa dalle autorità americane a metà degli anni ‘90, dopo la quale il mercato dei derivati finanziari ha conosciuto un boom dei volumi delle negoziazioni. Se ne sono avvantaggiati i managers degli intermediari dediti a questo tipo di operazioni (enormi bonus) e i loro azionisti (enormi utili e plusvalenze). L’intera economia occidentale sta pagando da quattro anni – e non è dato prevedere per quanti anni ancora – la catastrofe derivante dall’accumulo di rischi connessi con l’esplosione di tale ondata speculativa e degli inevitabili salvataggi pubblici.
Non vi è chi non rimanga impressionato dall’impermeabilità delle autorità a una reazione appropriata, cioè tale da scongiurare prontamente il rischio di eventi similari. Del pari, è impressionante quanto poco efficace, sebbene gigantesca, sia stata l’azione regolatoria prodotta dalle autorità internazionali (G20, Financial Stability Board e Comitato di Basilea). È ben vero che alla crisi dei mercati del 2008 sono seguite la crisi del debito sovrano di alcuni paesi e poi le forti incertezze sulla tenuta dell’euro. Ma è altrettanto vero che all’origine vi è la mancanza di effettiva volontà politica nel porre rapidamente sotto controllo la principale fonte di questi rischi: la tendenza al gigantismo della speculazione finanziaria e degli intermediari a essa dediti (i G-SIFIs, Global Systemic Financial Intermediaries, cui i supervisors dedicano sempre nuove analisi e ipotizzano schemi di disciplina).
Finora si è prodotta, dunque, una messe di regole e un ridisegno dell’architettura dei sistemi di vigilanza senza tuttavia edificare nel mentre un robusto seppur provvisorio (in attesa degli approfondimenti conoscitivi) riparo contro gli agenti più pericolosi per la stabilità dei mercati. La questione preliminare e centrale è la mole di alcune banche rispetto alla dimensione economica delle nazioni, cui compete la regolazione, unita alla tiepidezza e lentezza del potere politico nel ripristinare una netta separazione fra l’attività di banca di deposito da quella di banca d’investimento come aveva suggerito Paul Volcker, l’ex governatore della Fed.
Grandi energie sono state spese per approntare molte nuove norme sui requisiti patrimoniali (Basilea3), che l’Unione europea è fermamente orientata ad applicare senza distinzioni fra banche di diverso genere – e di questo ne stanno facendo le spese banche al dettaglio come le banche popolari e cooperative, estranee al gioco della speculazione ma costrette a una disciplina concepita essenzialmente per le maggiori banche commerciali -, ma poco o nulla di effettivo è stato fatto per arginare l’influenza negativa delle grandi banche internazionali.