FINANZA/ Il “trucco” della Merkel per non fare le riforme
Per GIUSEPPE DI TARANTO, le riforme nei Paesi euro deboli invocate da Angela Merkel sono solo un alibi per non parlare delle riforme dei trattati Ue che sono molto più urgenti

“Sul fronte dell’occupazione si devono eliminare le barriere presenti nel mercato del lavoro e l’Italia sta cercando di fare questo con il Jobs act, la riforma del lavoro, perciò sta compiendo un passo molto importante da questo punto di vista”. Sono le parole pronunciate da Angela Merkel in occasione del vertice dei capi di Stato e di governo a Milano. Una dichiarazione che suona come un elogio inaspettato, anche se come spiega Giuseppe Di Taranto, professore di Storia della finanza e dei sistemi finanziari all’Università Luiss di Roma, dietro questo complimento c’è il tentativo della Germania di trovare un alibi per non fare la vera riforma indispensabile al benessere europeo.
Quale valore hanno gli elogi dei capi di Stato europei al Jobs Act di fronte all’attuale situazione economica?
Gli elogi degli altri paesi sono sinceri, ma bisogna essere molto guardinghi rispetto alle parole della Germania. Quando ci fu la riforma del lavoro della Fornero, la Merkel sostenne che quella legge era addirittura “impressionante”. La Germania non vuole che si modifichi lo status quo dettato dai trattati di Maastricht e di Lisbona, perché Berlino ne ricava un enorme guadagno. Le riforme stanno diventando un alibi per l’unione monetaria europea.
In che senso le riforme sono un alibi?
Nel senso che le vere riforme di cui bisognerebbe parlare sono quelle della Bce come prestatore di ultima istanza, di una maggiore flessibilità dell’euro e dello scomputo degli investimenti dalla regola del 3%. Per la Germania quindi parlare delle riforme dei Paesi del Sud Europa è un alibi per non cambiare lo status quo che tra il 2010 e il 2013 le ha permesso di guadagnare ben 40 miliardi di euro attraverso lo spread.
Quale respiro può darci l’apertura della Merkel sulla flessibilità?
Nessuno. Ogni volta la Merkel fa delle promesse che poi non rispetta. La Cancelliera ha sempre fatto delle aperture in momenti particolari: per esempio, in occasione delle elezioni in Westfalia, disse che era disposta ad aumentare l’allora Fondo salva-Stati, oggi Meccanismo europeo di stabilità, ma poi non se ne è fatto nulla. I veri problemi, come la mutualizzazione del debito pubblico europeo, non sono mai affrontati. Mi domando quale senso abbia che noi per seguire la Germania: spostiamo l’età pensionabile a 67 anni e poi Berlino l’abbassa a 63 anni.
Ma il nostro debito pubblico non è più elevato di quello tedesco?
Se noi abbiamo un debito pubblico molto elevato è anche perché non abbiamo ricevuto i capitali che ha ottenuto la Germania, oltre 1.000 miliardi di euro, all’indomani dell’unificazione. Questa somma è stata erogata sotto forma di aiuti, non di debiti. Se poi si aggiunge che l’euro è stato cambiato sul marco con un rapporto di uno a uno, e che secondo studi di ricercatori tedeschi oggi il marco si sarebbe rivalutato del 40% se non ci fosse stato l’euro, si comprende perché la Germania è in una condizione migliore dell’Italia. Il nostro Paese non ha ricevuto le stesse somme dall’Ue per il Mezzogiorno.
Renzi ha fatto il Jobs Act per fare un piacere alla Germania?
L’Italia è costretta a dover presentare un suo programma di riforme perché ce lo chiede l’Europa, mentre l’Ue dovrebbe pensare prima a modificare i trattati europei, perché di questo non si parla mai. Nel 1998, quando è nata la Bce, ci fu un manifesto di premi Nobel in cui si affermava che lo statuto della banca centrale era sbagliato perché non si può guardare soltanto all’inflazione. I premi Nobel proponevano quindi di modificare lo statuto della Bce sul modello di quello della Fed, perseguendo come obiettivi anche la crescita e l’occupazione, e facendo della banca centrale il prestatore di ultima istanza. È questa la riforma che andrebbe fatta, anziché parlare soltanto di riforme interne. Se non cambiano queste regole ci troveremo sempre nelle stesse condizioni disastrate di prima.
(Pietro Vernizzi)
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