LEGGE DI STABILITÀ 2015/ Tasse e spesa, l’Italia resta “ostaggio” dell’Ue
Ieri sera il Governo ha presentato la Legge di stabilità 2015: è più ampia di quanto previsto, ma ciò non la salva dai rilievi di Bruxelles. L’analisi di STEFANO CINGOLANI

Per il momento sono slide, uno degli strumenti di comunicazione preferiti da Matteo Renzi. Ed è difficile capire dalle diapositive una legge di bilancio (legge di stabilità è definizione equivoca, meglio chiamarla per il suo vero nome). La portata dell’intervento è più massiccia del previsto anche dopo un martellamento dell’Unione europea e un lavorio ai fianchi della Banca d’Italia: si tratta di 36 miliardi di euro, cioè 18 miliardi di minore imposte, 15 miliardi di tagli alle spese, 3,8 da recupero dell’evasione, 3,6 dalla tassazione delle rendite finanziarie, più altri spiccioli; ma soprattutto 11 miliardi provengono da un aumento secco del disavanzo, dunque deficit spending nudo e crudo.
Per ogni ministro dell’Economia, la finanziaria è sempre stata la prova di maturità. La prima legge firmata da Pier Carlo Padoan può essere definita una prova di realismo. Il bilancio è segnato dalla lunga recessione e non poteva essere altrimenti. Che sia una politica per la ripresa è tutto da vedere. La manovra non è restrittiva, ciò sembra vero almeno stando al gioco delle slide. Se avrà un effetto espansivo (anzi “super-espansivo” come dice Renzi), dipende da molti fattori, il primo dei quali è politico-psicologico e si chiama fiducia; da lei deriva la voglia di trasformare gli incentivi in investimenti, il bonus in consumi o di utilizzare il Tfr, la liquidazione, oggi e non domani.
Non mancano i punti oscuri. La riduzione delle entrate comprende il beneficio fiscale di 80 euro (10 miliardi), la riduzione dell’Irap (6,5 miliardi) e lo stimolo all’impiego (niente contributi per tre anni ai nuovi assunti). Vuol dire che si ridurrà finalmente la pressione fiscale complessiva? Non si sa ancora, bisogna vedere quali altre tasse rientreranno dalla finestra alla fine della fiera e quanto peseranno le imposte locali.
Quanto ai tagli, siamo alla cifra già indicata nella spending review. Anche se si leveranno alti lai da ogni angolo della Pubblica amministrazione centrale e periferica, in realtà si poteva fare di più. Sono modesti e tutt’altro che sicuri i risparmi di 4 miliardi da parte delle regioni, i 2 di comuni e province (ma le province non dovevano sparire o quasi?), per non parlare dei 4 per i ministeri. Rispetto all’ammontare delle risorse redistribuite (la spesa pubblica arriva a 800 miliardi), si tratta di ritocchi. Davvero scarso, poi, è l’intervento sull’acquisto di beni e servizi: appena 3 miliardi.
Padoan può rispondere che in questo modo si è evitata una ricaduta negativa sulla domanda. Sembra quasi ovvio visto che siamo in recessione, anche se per raggiungere questo obiettivo di buon senso, il governo Renzi ha dovuto sfidare il diktat autolesionista di Bruxelles. Qui il ministro dell’Economia ha mostrato determinazione, contestando anche tecnicamente i parametri ormai obsoleti e palesemente sbagliati che seguono gli esperti della Commissione, a cominciare dal moltiplicatore fiscale (cioè quanta parte di un euro speso diventa crescita o viceversa). Dalla sua Padoan ha l’esperienza all’Ocse, dove ha lavorato per mettere a punto strumenti più moderni e accurati che tengano conto delle trasformazioni avvenute con la Grande Recessione.
Salta agli occhi che il sollievo fiscale è finanziato soprattutto aumentando il disavanzo dal 2,2% al 2,9%. È vero che si resta sempre sotto il tetto del 3%, ma si tratta di un buco che andrà colmato. Il Governo dice che lo farà in modo graduale, allungando di un anno (almeno!) il cammino verso il pareggio, tuttavia una pesante spada di Damocle pende sulla testa dei contribuenti. Non solo, questo sarà il punto d’attacco per i guardiani di Bruxelles. Renzi ha scovato un artificio: se alla fine sarà costretto a concedere qualcosa, quindi ad abbassare il disavanzo, potrà ricorrere a un fondo cuscinetto pari a 3,5 miliardi. Alimentato da che cosa? Da accise e balzelli vari?
Altro fianco debole è la mancata riqualificazione della spesa. Il problema principale è sostenere la domanda pubblica a favore degli investimenti (come Renzi e Padoan hanno sempre detto), ebbene questo cambiamento non si vede proprio. Il carrozzone statale continua ad arrancare come sempre, spiluccando un po’ qua un po’ là, ma lasciando intatto il carico di inefficienza, di iniquità, di assistenzialismo.
Leggendo la diapositiva sulle uscite, c’è di tutto un po’, ma la fetta consistente è il sostegno monetario ai redditi (bonus, Irap, partite Iva, contratto a tempo indeterminato, famiglie, ammortizzatori sociali). Investimenti non se ne vedono, anzi sono previsti in calo. Bisogna guardare alle slide dello sblocca Italia, replica il Governo. Certo, ma se non hanno coperture nel bilancio 2015 allora vuol dire che avranno effetto a babbo morto.
Probabile che anche a questo si attaccherà la Ue per contestare la legge di bilancio. Stando a quel che si dice, la querelle riguarda uno 0,25% in più o in meno nel rapporto tra deficit e Pil (quei 3,5 miliardi che Padoan si è tenuto di riserva). Una battaglia sul disavanzo condotta per difendere una riqualificazione della spesa darebbe molta più forza e l’Italia potrebbe davvero sfidare Bruxelles, anzi potrebbe prendersi anche unilateralmente lo spazio finora negato, perché togliere gli investimenti pubblici dal calcolo del disavanzo strutturale non è contro Maastricht, al contrario segue alla lettera la filosofia del patto che si chiama di crescita, non solo di stabilità. Se invece ci si presenta al poker europeo con una manovra di vecchio stampo, allora c’è davvero il rischio di una bocciatura sonora.
Cosa succederà in questo caso? Non c’è nulla da indovinare, tutto è già scritto: scatta la clausola di salvaguardia che prevede un aumento delle imposte indirette e una riduzione delle detrazioni fiscali. Si parla di altri 3 miliardi. Quel che viene dato con una mano, sarà ripreso con l’altra? Se è così, il bilancio diventa restrittivo per gli effetti perversi provocati da un aggravio delle tasse sui redditi e sul prodotto nazionale. La recessione, anziché migliorare, peggiora. La Commissione e il perfido Barroso, nemico di Roma fino all’ultimo giorno del suo lungo quanto pessimo mandato, consumerà la vendetta finale. Per l’Italia e per l’Europa intera sarebbe una cocente sconfitta dalle conseguenze disastrose.
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