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Home » Economia e Finanza » SPY FINANZA/ Cina, “allarme rosso” per i mercati

  • Economia e Finanza

SPY FINANZA/ Cina, “allarme rosso” per i mercati

L’indicatore di rischio per l’economia cinese sta inviando sinistri flash rossi: sgonfiare la bolla immobiliare non è così facile come sembra. L’analisi di MAURO BOTTARELLI

Mauro Bottarelli
Pubblicato 20 Settembre 2014
Trader_Cina_Shangai_BorsaR439

Infophoto

L’indicatore di rischio per l’economia cinese sta inviando sinistri flash rossi. «L’uso rigido dei target sulla crescita del Pil, unito agli incentivi che incoraggiano una sovraperformance dell’economia, hanno portato a un indebolimento potenzialmente pericoloso della stabilità finanziaria del Paese asiatico»: lo sottolinea Paul Gruenwald, capo economista di Standard & Poor’s, precisando inoltre che «la crescita del debito ha posto Pechino in una situazione delicata in cui il settore finanziario è considerato il maggiore rischio macro non solo per il Paese ma per l’economia mondiale».


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Per l’esperto, finché il governo non avrà il coraggio di compiere alcuni passi per allontanarsi dai target di crescita rigidi e asimmetrici, la stabilità finanziaria della Cina continuerà a essere a rischio. Il problema è che i leader politici del Paese hanno immediatamente rigettato questi avvertimenti rispetto al rischio di un imminente credit crunch, rimanendo determinati nel voler purgare gli eccessi del sistema finanziario nonostante il continuo calo del prezzo degli immobili – dell’altro giorno il dato di un crollo ai minimi da tre anni e il peggior rallentamento della produzione industriale dal fallimento di Lehman Brothers. Quest’ultima voce è calata dello 0,4% in agosto rispetto al mese precedente, mentre il tasso di crescita degli investimenti in asset fissi è scesa a minimi record.


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Per Wei Yao di Societe Generale, ci troviamo di fronte a «una decelerazione davvero netta, qualcosa di inaspettato. Ciò che davvero è sorprendente, poi, è la calma della risposta di Pechino a questi dati. La tolleranza della nuova leadership cinese verso un periodo di sofferenza di breve termine è rapidamente cresciuta di un altro livello». L’output dell’elettricità è sceso del 2,2% dallo scorso anno, soprattutto per la scelta delle autorità di chiudere sempre più elefantiache fabbriche per tagliare la capacità in eccesso, come ci mostra il grafico a fondo pagina. L’erogazione di nuovo credito è calata del 40% e si è registrata anche una netta contrazione nei cosiddetti “trust loans”, i prestiti fiduciari, dovuta sia alle restrizioni in atto da parte delle banche che alla draconiana volontà di limitare al massimo il nesso tra sistema bancario regolare e quello ombra: come ovvia conseguenza, a pagare il prezzo maggiore alla mannaia che si è abbattuta sui “trust loans” sono stati i settori come quello immobiliare e delle costruzioni in genere.


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Per Fleming Nielsen di Danske Bank, «ci sono già oggi segnali di credit crunch, anche se volutamente indotto dai regolatori, con gli spread sulle obbligazioni di debito corporate low grade a livelli di pre-default. Il credito ha rallentato talmente tanto negli ultimi mesi da non crescere più velocemente come il Pil nominale, un punto di flessione cruciale». Il mercato immobiliare sta pagando un prezzo molto alto, con le vendite giù del 13,4% in agosto e i prezzi che stanno calando da cinque mesi consecutivi ma anche tutte le industrie legate in qualche modo al comparto “casa” stanno subendo contraccolpi, basti pensare che in un anno la produzione di lavatrici è calata del 7,5%.

Per Chang Chun Hua di Nomura, «la Banca centrale cinese deve intervenire per evitare un disastro. Penso serviranno 5 successivi tagli da 50 punti base della Reserve Requirement Ratio (RRR) da qui alla fine dell’anno e forse anche questo non basterà, richiedendo giocoforza misure più radicali». A oggi la RRR è al 20%, mentre nei tardi anni Novanta viaggiava ancora intorno al 4-5%: tagliare oggi la ratio a quei livelli, libererebbe qualcosa come 2 triliardi di dollari di nuovi prestiti. E, in effetti, un primo taglio di 50 punti base si è concretizzato, di fatto, martedì e mercoledì scorsi attraverso operazioni di finanziamento per 500 miliardi di yuan operate della Banca centrale cinese nei confronti dei cinque principali istituti di credito del Paese, con prestiti a tre mesi.

Immediatamente chi è particolarmente esposto sulla Cina, come ad esempio Goldman Sachs, ha sottolineato l’accaduto come un cambio di strategia verso politiche di stimolo, ma tali non sono: quanto operato sono sì stimoli ma chirurgici, mirati e limitati che la Banca centrale cinese opera per mantenere un minimo di equilibrio nel contesto della sua strategia di contrazione, nulla più, visto che comunque fra tre mesi quei soldi dovranno essere ripagati dalle banche. E da qui a fine anno è più che probabile che operazioni simili verranno ripetute, magari non altre quattro volte ma due o tre sicuramente. Ma proprio il premier Li Keqiang, ancora la scorsa settimana, si è detto inflessibile: «Stiamo ristrutturando l’offerta monetaria, non espandendola», di fatto un chiaro segnale ai mercati affinché non attendano manovre di stimolo per attivare un nuovo boom. Anche perché dall’inizio dell’anno, nonostante la minore crescita, in Cina sono stati creati 9,7 milioni di posti di lavoro e il tasso di disoccupazione urbano è rimasto fermo al 5%, anche se gli ultimi dati forniti da Manpower attraverso il suo Employment Outlook Index parlano di un calo ai minimi dal 2009: insomma, finché il mercato del lavoro resterà stabile, la nuova leadership non metterà mano a politiche espansive. Inoltre, il flusso di lavoratori che si spostano dalle aree rurali verso le città sta rallentando molto velocemente, quasi un segnalatore del fatto che l’economia del Paese sta raggiungendo il “punto di Lewis”, quando la crescita si sta esaurendo ma si abbassano con essa anche i rischi di tensioni sociali.

Insomma, strategia del tutto nuova da parte della nomenklatura cinese, visto che quella precedente ancora pochi mesi fa aveva inondato il mercato con un diluvio di nuovi prestiti non appena si registrasse una contrazione o rallentamento economico, di fatto aggravando i problemi già esistenti. La ratio del credito rispetto al Pil era raddoppiata, raggiungendo il 200% in cinque anni, una velocità di crescita mai registrata in 100 anni per quanto riguarda le bolle sui mercati. Oggi invece il credito è fermo o quasi, con l’extra output generato da ogni extra yuan di prestito sceso dal circa 0,75 prima del crollo di Lehman Brothers all’attuale 0,2: d’altronde, giova sempre ricordare che quello del credito in Cina è un mastodonte di 25 triliardi di dollari, grande come il sistema bancario Usa e giapponese insieme. E giova anche collegare il rallentamento dell’economia cinese, quasi indotto dalla strategia di governo, al calo del prezzo delle commodities, in particolar modo l’acciaio e il petrolio, sceso a livelli minimi in tempi molto più rapidi di quanto si pensasse, come ci mostra il grafico a fondo pagina.

 

Ci sono però dei rischi, sempre connessi all’elefantiaco mercato delle costruzioni, visto che l’industria ha di fatto contabilizzato pagamenti in anticipo come cash-flow da utilizzare: questo porta di fatto con sé un appiattimento dei bilanci e una sottostima del vero grado di leverage su cui si sta operando, con il rischio di nuovi default sui pagamenti di coupon o cedole come quelli registrati la scorsa primavera. Insomma, dopo il Giappone e l’America dei subprime, ora sembra sia giunto il turno della Cina di far deflettere la bolla immobiliare: peccato che le proporzioni siano un pochino differenti. Ma, al netto dei paradossi, la leadership economica di un Paese formalmente comunista pare meno keynesiana e più di scuola austriaca che la Fed o la Bce. Staremo a vedere come andrà a finire questo esperimento. 


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