Altro che Fiom. Se adesso Sergio Marchionne “trova il duro” proprio con i suoi “amici” dell’Uaw – il potente sindacato americano, l’United auto workers – non c’è da stare allegri, neanche pensando “ben gli sta”. Per i piani futuri della Fca, protesa verso la realizzazione di un’altra grande alleanza che la ponga al primo posto nel mondo e le permetta di fare quelle economie di scala che saranno indispensabili per sostenere le future sfide dell’investimento tecnologico, il mancato accordo con i lavoratori americani è una brutta battuta d’arresto. Però, come dire, “ci sta!”. Cioè, è nell’ordine naturale delle cose. E Landini non c’entra, non c’entrano le frange oltranziste presenti anche nelle pur disciplinate fabbriche americane. C’entra invece – e vien da dire: vivaddio! – un normale, comprensibilissimo conflitto d’interessi.
Da una parte, il management di un grande gruppo industriale, chiamato dall’azionariato (qui poco importa se familiare o istituzionale) a “massimizzare il valore per l’azionista” della società e ad aumentarne la redditività e quindi i dividendi, l’utile distribuito; dall’altra, i sindacati, che – lo dice la parola stessa – devono “sindacare” il modo in cui il management alloca le risorse economiche dell’azienda. Prima fra tutte, proprio l’utile d’esercizio.
Perché questo è il punto. Nei settori economici più esposti al ciclo, com’è quello dell’auto, quando le cose vanno male, magari per anni e anni, il sindacato altro non può fare che cercare di limitare i danni. Non può negoziare alcuna “redistribuzione del reddito aziendale” con il vertice dell’azienda stessa, perché manca l’oggetto del teorico negoziato: manca il reddito. E quindi si limita a difendere i posti di lavoro, reclamando interventi del welfare pubblico, aumenti di capitale: tutte le possibili difese, insomma, contro l’irreparabile, contro i licenziamenti, le chiusure, i default. La musica cambia, però, quando le cose vanno bene, quando cioè un’azienda ritorna all’utile: perché allora il sindacato chiede, comprensibilmente, di partecipare alla “bonanza” e, di regola, la richiesta non viene accolta se non in misura irrisoria.
Ha fatto scalpore l’accordo sindacale concluso da Marchionne in Italia, che prevede un bonus di complessivi 600 milioni di euro per i salari nel caso in cui vengano centrati gli obiettivi di redditività aziendale. Effettivamente tanti soldi, a valutarli in senso assoluto. Se invece, a fronte di 600 milioni per i dipendenti si considera che gli azionisti ne intascherebbero come dividendi cinque volte tanto, il discorso può anche presentarsi sotto una luce diversa. Perché il capitale, insomma, continua a rendere assai più del lavoro.
Si può replicare, giustamente, che questa è la logica del “capitalismo” (lo dice, anche qui, la stessa parola) e che in tal modo gli azionisti si ristorano delle fasi in cui l’azienda perdeva quattrini e loro erano rimasti a digiuno o, peggio, hanno dovuto (raramente, in verità) mettere la mano alla tasca per aumentare il capitale sociale: vero anche questo ragionamento.
Ma qui non rileva stabilire chi abbia ragione nella diatriba, basta capire che è logico e normale, quando c’è un vantaggio da dividere tra due parti a esso cointeressate e comunemente meritevoli – sia pure per motivi e da prospettive diverse – che tra essa si apra un negoziato e, all’occorrenza, un contenzioso.
Ecco: il valore del “no” che nel 65% dei casi i dipendenti Fca americani hanno detto alla proposta aziendale sta tutto in questo opportuno promemoria. Il buon andamento del sistema capitalistico moderno sta nel periodico rinegoziare diritti e doveri, interessi e rischi. E la cosa ha valore in sé, a prescindere dalle radicalizzazioni in un senso o nell’altro.