Tre giorni fa Yu Yongding, attualmente senior fellow alla Chinese Academy of Social Sciences di Pechino e prima membro del Comitato monetario della Banca del popolo dal 2004 al 2006, ha tenuto un’interessante, ancorché silenziata dai media, conferenza al Peterson Institute for International Economics di Washington DC, con tanto di slides a conferma della sua tesi. E quale sarebbe? La situazione in Cina è molto peggio di quanto sembri in superficie. E non tanto nell’immediato, quanto in prospettiva per gli anni a venire: insomma, in gioco c’è la sostenibilità stessa dell’economia che negli ultimi dieci anni ha garantito un minimo di crescita a livello globale.
Per una volta, non è stato il debito a farla da padrone, bensì altre dinamiche quali l’efficienza di capitale, bassa e in ulteriore calo (con la ratio capitale/produzione in salita); la profittabilità del settore corporate, in calo continuo; la quota di finanziamento attraverso i mercati di capitale, molto bassa; i tassi di interessi sui prestito, alti; il tasso di inflazione, con l’indice dei prezzi alla produzione in calo. Per Yu Yongding, il guaio reale della Cina è la crescita del coefficiente di capitale, un qualcosa che «potrebbe portare a un caos globale per l’economia, con un impatto peggiore di quanto visto finora anche negli scenari peggiori».
Interessante anche la valutazione che Yu Yongding offre dell’esplosione della bolla azionaria del Dragone, a suo modo di vedere creata deliberatamente dal governo per due scopi essenziali: garantire alle aziende indebitate di finanziarsi attraverso il mercato equities e gonfiare le valutazioni dei titoli per stimolare la domanda attraverso il cosiddetto “effetto benessere”. Un approccio miope a suo modo di vedere e che ha miseramente fallito, visto che «per salvare la città, l’abbiamo bombardata», tanto che «a questo punto l’abilità di legislatori e regolatori nel gestire la crisi è pesantemente messa in discussione». Per Yu Yongding, inoltre, questa tesi è confermata dalla scelta di svalutare lo yuan a partire dall’11 agosto scorso, un atto che appare un’ammissione esplicita del fallimento del tentativo di portare in reflazione la bolla equity: di fatto, serviva – in fretta – un altro modo per stimolare l’economia e la chiave monetaria era lì a portata di mano, pur con controindicazioni ed effetti collaterali.
Per Yu Yongding, «nel primo trimestre del 2015 il deficit di conto capitale della Cina era maggiore del surplus di conto corrente, una situazione dovuta sostanzialmente a quattro fattori. La scomposizione dei carry trade valutari, la diversificazione degli assets finanziari da parte dei cittadini, l’abbandono di investimenti esteri e le fughe di capitali». E ora che Pechino ha dato vita ufficialmente alla svalutazione, i rischi materiali salgono: «L’implicazione di quanto fatto può essere più seria del fiasco occorso sul mercato azionario, con conseguenze internazionali molto più grandi. Ma non basta, perché un eventuale fallimento avrebbe conseguenze per la stessa stabilità finanziaria cinese. È il caso di dire chiaramente le cose: due bolle sono già scoppiate. Quale sarà la prossima?».
Una risposta potrebbe arrivarci da questi due grafici, i quali ci mostrano le proiezioni di Yu Yongding riguardo alla ratio debito/Pil cinese e ai profitti del ramo corporate. Penso non servano miei commenti aggiuntivi alla faccenda, ma una piccola postilla sì: si tratta del base-case avanzato da un ex banchiere centrale, quindi sapete da soli che la realtà potrebbe essere già oggi molto peggiore.
E se può essere di sollievo per alcuni il fatto che la prossima settimana i mercati azionari cinesi saranno chiusi in ossequio a una ricorrenza nazionale, questo offrirà a traders e analisti solo più tempo per riflettere sull’ultimo dato ufficiale riguardo il comparto manifatturiero del Dragone, a dir poco deludente. Siamo a 49.8, più dell’attesa di 49.7 ma ancora sotto quota 50, ovvero la linea che demarca contrazione da crescita. Il problema è che se il dato ufficiale è brutto, quello non ufficiale ma molto seguito, ovvero il Caixin, è ancora peggio, come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, visto che si è scesi da 47.3 a 47.2, la lettura più bassa dal marzo del 2009!
E attenzione, perché l’accelerante che potrebbe rendere letale l’incendio economico e finanziario cinese sta rimandando sinistri scricchiolii. Parlo del sistema bancario ombra, per l’esattezza la sua capacità di permettere ai governi locali di evitare le restrizioni sul credito, un qualcosa che ha portato all’accumulazione di debito pari al 35% del Pil e che ha visto triliardi di yuan incanalati in investimenti speculativi attraverso la proliferazione di prodotti per la gestione del risparmio con palesi mismatch sulle maturazioni. Inoltre, il 40% dell’esposizione creditizia in Cina è fuori bilancio nel settore bancario, rendendo quindi praticamente impossibile quantificare quale sia la reale esposizione degli istituti.
Le banche più rischiose e spericolate, infatti, stanno investendo i fondi dei clienti in finanziamento mantenuto fuori bilancio, di fatto rendendo impossibile la vita alle agenzie di rating chiamate a valutare la qualità dei loro assets. Inoltre, anche a bilancio si possono fare parecchi magheggi, ad esempio basti vedere l’aumento esponenziale di prodotti denominati come “receivables”, che spesso includono finanziamento ombra come trust e prodotti di gestione del risparmio: parliamo di un aumento del 25% nella prima metà di quest’anno, rispetto al +12% dell’aumento degli assets totali e questo vale per tutte le banche cinesi, incluse le cosiddette Big Four.
Se a questa espansione ancora significativa del credito uniamo ora il rallentamento della seconda economia mondiale, il cocktail rischia di diventare letale, tanto che Standard&Poor’s ha tagliato la sua valutazione sul rischio economico del settore bancario cinese da “stabile” a “negativo”. Parliamo di un mercato da 41 triliardi di yuan (6,4 triliardi di dollari), stando a dati di Moody’s relativi alla fine del 2014, un business enorme reso ancora più attraente dai cinque tagli dei tassi di interesse compiuti dalla Banca centrale cinese dallo scorso novembre a oggi.
L’ultimo grafico può darvi un’idea di quanto i “receivables” stiano diventando l’investimento quasi core di sempre più banche cinesi, di fatto aumentando il rischio di sostenibilità, visto che nessuno conosce la qualità di quegli assets, i quali sono oltretutto ignoti perché non vengono riportati nelle previsioni sui prestiti dagli istituti. Insomma, i creditori possono bypassare le restrizioni sui prestiti, mentre i risparmiatori possono ottenere rendimenti più alti rispetto ai tassi sul deposito con un cap legale.
È sostanzialmente la logica delle asset-backed securities, di fatto trust, piani di gestione del patrimonio e prodotti di gestione del risparmio che impacchettano prestiti in prodotti per i compratori. Dentro può esserci di tutto, ma a bilancio delle banche non compare niente, solo la voce “receivables”: alla luce di tutto questo, le parole di Yu Yongding fanno ancora più paura.