Quando si dice che il tempismo è tutto in economia. «L’Italia è aperta agli investitori internazionali soprattutto di lungo termine e le riforme sono fondamentali per attirare nuovi investimenti», ha dichiarato il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, nel corso del forum dell’associazione che riunisce 29 fra i maggiori Fondi sovrani internazionali, con una dotazione di capitali pari a 2,8 volte il Pil dell’Italia. «L’Italia è il quinto Paese manifatturiero al mondo e il secondo in Europa, ha nuove prospettive di crescita, superiori al previsto nel 2015», ha dichiarato Padoan, il quale ha ricordato che sul tavolo c’è anche «il processo di privatizzazioni con il passaggio chiave delle Poste e dell’Enav». Privatizzazioni che possono attirare investimenti dall’estero. Tanto che mercoledì scorso, a margine dei lavori del forum, il ministro dell’Economia ha incontrato i rappresentanti dei fondi sovrani di Cina, Libia, Kuwait, Singapore e Australia, illustrando loro il piano di riforme del governo italiano e il programma di privatizzazioni in corso.
Tra gli altri, Padoan ha incontrato Li Keping, responsabile del fondo cinese Cic (China Investment Corporation), e Hassan Bouhadi, presidente della Libyan Investment Authority. Insomma, le opportunità di investimento per i fondi sovrani ci sono, «il rischio è quello di esitare a coglierle – è stato il monito lanciato da Padoan -, la trappola del non investimento, visto che l’Italia è il posto dove le relazioni tra pubblico e privato possano diventare le più profittevoli in assoluto». In quest’ottica, il piano Juncker da oltre 300 miliardi di euro è «un’area in cui il matrimonio fra pubblico e privato è benvenuto. Le strategie europee per avere successo devono essere aperte e collaborative».
Belle parole, intenzioni condivisibili. C’è però un fatto: ovvero, se c’è un momento in cui bussare alla porta dei fondi sovrani rischia di essere una perdita di tempo è proprio quello attuale (senza mettere in conto la poca stabilità di un investimento da parte del Fondo sovrano libico, Paese diviso letteralmente diviso in due con governi che non si riconoscono l’un l’altro e l’ipotesi di una guerra in piena regola sempre dietro l’angolo).
Vi ho già parlato delle perdite miliardarie in cui sono incorsi i fondi sovrani di Norvegia e Qatar con l’esposizione a titoli di Glencore e Volkswagen ma la questione è più ampia. Ma partiamo da qui, un’infografica (la trovate a fondo pagina) che ci sottolinea i numeri più importanti dei Fondi sovrani mondiali. Ora, la questione è sempre la stessa, di cui vi parlo da almeno un anno: i petrodollari, ovvero il denaro denominato in biglietti verdi che gli Stati produttori ed esportatori di petrolio rimettevano in circolo nel sistema finanziario globale, spingendo in alto le quotazioni di quegli assets Usa e che nel 2014, per la prima volta dopo 18 anni, sono spariti, come mostra il grafico a fondo pagina. Anzi, per tamponare i deficit di budget interni dovuti al crollo delle valutazioni, i Paesi in questione hanno drenato liquidità, mettendo mano alle riserve monetarie.
I Paesi esportatori di petrolio hanno riserve per 1,7 triliardi di dollari ma anche 4,3 triliardi di dollari in assets detenuti dai loro Fondi sovrani: il problema è che con un ciclo delle commodities come quello attuale, è sempre più probabile che i Fondi sovrani non investano in massa, ma, anzi, disinvestano per tamponare i buchi di bilancio senza dover drenare le riserve valutarie, un atto che viene sempre letto come extrema ratio dal mercato, come sintomo di fragilità.
Nei primi tre mesi di quest’anno, infatti, c’è stato un incremento solo marginale negli assets detenuti da Fondi sovrani, proprio come risposta al crollo dei prezzi del petrolio. Gli esperti di CityUK si aspettano che per l’intero 2015 l’aumento sarà nell’ordine di un +4% a 7,4 triliardi, ben al di sotto del +12% medio degli ultimi cinque anni. Addirittura, i flussi verso alcuni fondi potrebbero diventare negativi.
Con circa il 60% degli assets detenuti generati da esportazioni di materie prime, capite da soli quanto siano correlati prezzi del petrolio e crescita degli assets in portafoglio: quindi, se le valutazioni del barile resteranno a questo livello, molte nazioni potrebbero spostare liquidità dai Fondi sovrani alle casse statali per stabilizzare ammanchi di budget, senza contare il rallentamento dell’economia cinese, altro possibile freno all’attività di queste istituzioni fino a poco tempo fa onnivore. Addirittura, a inizio mese il Qatar – il cui fondo è proprietario del complesso di Porta Nuova a Milano – ha emesso bonds per 4 miliardi di dollari per finanziare il proprio deficit di budget dovuto al crollo del prezzo del greggio, emissione che ha avuto una ratio domanda/offerta di quattro volte. Poco prima, anche l’Arabia Saudita aveva seguito la stessa strada di finanziamento sui mercati di capitale.
Per tamponare un deficit di budget che sta avvicinandosi al pericoloso livello del 20% del Pil (130 miliardi di dollari), Riyad ha infatti bisogno di un prezzo del greggio attorno ai 100 dollari al barile, tanto che il governo ha già dichiarato che taglierà di netto tutte le spese non strettamente necessarie. Addirittura, il ministro delle Finanze, Ibrahim al-Assaf , ha dichiarato che «alcuni progetti siglati anni fa e non ancora partiti, verranno rinviati in futuro a data da decidersi».
Il primo grafico a fondo pagina spiega più di mille parole la situazione attuale dell’Arabia Saudita, la quale oltretutto sta spendendo molto per le sue operazioni militari in Yemen. Aramco, l’azienda petrolifera statale, sta discutendo con alcune banche per un finanziamento da 5 miliardi di dollari che vada a rimpinguare le casse dopo la spesa per costruire una raffineria da 400mila barili al giorno a Yanbu: in parole povere, la ricca Arabia deve indebitarsi per continuare a finanziare il proprio budget e i progetti essenziali sotto questo regime di prezzi petroliferi.
La situazione del Qatar è meno drammatica, ma la scorsa settimana, il ministro delle Finanze, Ali Sherif al-Emadi, ha voluto rassicurare i mercati, dichiarando che nessun progetto in agenda verrà cancellato o posticipato, visto che le finanze del governo restano solide. Ma il fatto stesso che si sia ritenuto necessario parlare e rassicurare la dice lunga, visto che cinque membri del Consiglio per la Cooperazione del Golfo nelle stesse ore hanno cominciato a tagliare le spese e i sussidi proprio a causa del continuo ampliamento del deficit di conto corrente dovuto alle mancate o minori entrate petrolifere.
Il Qatar è il leader dell’export di gas liquido naturale e questo consente a Doha di poter gestire un deficit di budget minimo, solo lo 0,7% del Pil, oltretutto avendo un break-even fiscale di 65 dollari al barile rispetto ai 100 dollari dell’Arabia Saudita. Ma come ci mostra l’ultimo grafico, la correlazione storica comincia a far notare un certa sofferenza anche per il Qatar, il quale oltretutto ha dispiegato 1000 uomini in Yemen, dopo che un attacco missilistico ha ucciso 45 soldati degli Emirati Arabi Uniti e 10 sauditi. Se il conflitto proseguirà e, anzi, si inasprirà, questo potrebbe andare a impattare notevolmente sullo stato di salute finanziario del Paese, aggiungendo pressione ulteriore a quella già presente per il basso prezzo del petrolio e la dipendenza dalle riserve valutarie di petrodollari.
Insomma, in linea di principio Padoan fa benissimo a cercare investimento di lungo termine tra i Fondi sovrani, ma fossi in lui non ci conterei troppo, almeno in questo momento storico. Se deve mettere qualcosa a budget, cercherei altrove.