SPY FINANZA/ Così la Fed può “mandare in tilt” i mercati

- Mauro Bottarelli

Si avvicina un momento molto delicato e difficile per la Fed, che deve decidere se alzare i tassi di interesse. Una decisione che può avere diverse conseguenze, ricorda MAURO BOTTARELLI

janetyellen_occhialiR439 Janet Yellen (Infophoto)

La resa dei conti si sta avvicinando, ma sono certo che, alla fine, a Washington riusciranno un’altra volta a calciare il barattolo in avanti. Il 16 dicembre, infatti, la Fed è chiamata a decidere rispetto al primo rialzo dei tassi dopo 85 mesi in area zero, una decisione che sul finire della scorsa settimana ha spaventato e non poco le Borse, dopo le ultime dichiarazioni della numero uno, Janet Yellen. A detta della quale, la Fed «deve studiare il nuovo scenario finanziario uscito dalla crisi, soppesare attentamente la politica monetaria alla luce dei nuovi strumenti emersi e riconoscere quali sono i nuovi canali di trasmissione della politica monetaria», ricordando che tra i compiti della Banca centrale rientra anche la valutazione degli svantaggi che possono derivare dalle nuove azioni di politica monetaria e di trasmissione della politica monetaria. I membri della Fed, ha spiegato la Yellen, «devono tenere a mente i nuovi canali di trasmissione della politica monetaria che possono essere emersi dagli intricati legami economici e finanziari rivelati dalla crisi all’economia globale. È cruciale capire gli effetti della regolamentazione e i possibili cambiamenti dell’intermediazione finanziaria sull’implementazione e la trasmissione della politica monetaria». 

Insomma, sanno di non potere alzare, ma varcare il Rubicone del 2015 senza averlo fatto potrebbe innescare nei mercati l’effetto domino: tutti sanno che gli Usa sono di nuovo in recessione, ma nessuno vuole ammetterlo. Se anche a dicembre si sceglierà l’impasse, qualcuno potrebbe muoversi di conseguenza. E in grande stile, cominciando a scaricare equity e debito. Tuttavia, la scorsa settimana il numero uno della Fed non ha commentato l’outlook economico e monetario americano, così come non ha dato indicazioni sulla futura strategia dell’Istituto centrale Usa. «Dopo l’inizio della crisi la Fed e le altre Banche centrali hanno messo a punto e varato misure monetarie non convenzionali. È stata offerta la possibilità di valutare nuove politiche e questioni associate alla politica monetaria e all’efficacia delle varie opzioni», ha aggiunto Yellen, osservando che la crisi ha anche alterato il modo di pensare la politica monetaria. «È quindi fondamentale comprendere gli effetti della regolamentazione e i possibili cambiamenti dell’intermediazione finanziaria ed è compito della Fed impegnarsi a valutare l’applicazione potenziale di cornici di politica monetaria di lungo termine e valutare le numerose questioni associate alle varie cornici possibili», ha concluso. Insomma, dire tutto per non dire niente, un Draghi in gonnella. 

C’è invece qualcuno che ha le idee molto chiare al riguardo, per l’esattezza il Fondo monetario internazionale, il quale è tornato alla carica per spingere la Fed a procrastinare il primo rialzo dei tassi, proprio ora che la congiuntura economica interna e quella esterna offrono la possibilità alla Banca centrale statunitense di cominciare a normalizzare il costo del denaro nella prossima riunione a dicembre. «Dovrebbe aspettare che al continuo rafforzamento del mercato del lavoro si aggiungano chiari segnali di risalita dell’inflazione», ha affermato l’istituzione di Washington nel rapporto stilato in vista del G20 che si svolgerà il 15 e 16 novembre a Antalya, in Turchia. E ancora: «Il rialzo della Fed potrebbe aumentare la volatilità dei mercati con movimenti potenzialmente in grado di creare disturbo sui flussi di capitali e sui prezzi delle attività». 

Il messaggio ricalca, infatti, quanto già riferito nel recente World Economic Outlook di ottobre e in numerose precedenti occasioni, ma il cui ripetersi rischia di non semplificare la strada alla Banca centrale guidata dalla Yellen: «Le decisioni della Fed dovrebbero continua a basarsi sui dati e la strategia di comunicazione resta essenziale, specialmente in un contesto di volatilità dei mercati», ha concluso il Fmi. E ora vi spiego le tre ragioni per cui il Fmi, per una volta in vita sua, dice la verità. 

Prima: a livello preliminare, il Pil Usa nel terzo trimestre è cresciuto dell’1,49%, disattendendo le previsioni per un +1,6% e in forte calo dal 3,9% del secondo trimestre, quello degli unicorni che benedicono i processi di revisione. È la seconda lettura più debole del Pil a livello trimestrale dai primi tre mesi del 2014, sempre se si esclude il doppio aggiustamento stagionale che fu posto in atto nel primo trimestre di quest’anno per mascherare il collasso totale. E come vi dico da mesi e mesi su queste pagine, il principale fattore di calo del Pil è stato il calo delle scorte, le quale sono passate da un’attesa preliminare di +0,02% a un secco -1,44%, il peggior calo dal quarto trimestre del 2012, tanto che il contributo nominale è passato da 127,5 miliardi a soli 62,2 miliardi di dollari. E attenzione, perché seppur in calo, le scorte sono state ancora un fattore di addizione al dato del Pil, ma se il ciclo di liquidazione prenderà ritmo e arriverà ai livelli vissuti durante la recessione (un totale di 718 miliardi sottratti in otto trimestre consecutivi), il dato generale andrà a schiantarsi. 

Insomma, la lettura del terzo trimestre ha visto salire il Pil Usa a 16,394 trilioni di dollari, un aumento di 61 miliardi che rappresenta l’incremento su base annua più modesto dal primo trimestre del 2014, il +2% attuale contro l’1,7% di allora. Ma visto che le scorte hanno visto calare la loro spinta, da dove è arrivata la crescita? Ce lo dice il primo grafico a fondo pagina, il quale ci mostra come, al netto dell’aumento totale di 61 miliardi, 18,2 o il 30% del totale è arrivato dalle spese obbligatorie legate al programma Obamacare, ovvero spese sanitarie! Per il quinto trimestre di fila, quindi, è la sanità a salvare il dato del Pil Usa! 

Ma ancora più interessante è vedere, scomponendo il dato, come la classe media Usa, quella che maggiormente sta patendo la recessione imminente, abbia speso nel terzo trimestre qualcosa come 10,4 miliardi di dollari in beni da ricreazione e automobili. Potere del credito al consumo subprime, suppongo, quello che fa vendere le macchine a Marchionne, ma che è arrivato al picco assoluto, con la ratio tra scorte e vendite mai così in alto da quando viene tracciato il dato. 

Seconda ragione: sempre più americani stanno prendendo coscienza della situazione economica reale e la narrativa obamiana comincia a perdere di smalto e credibilità in maniera sempre più netta. Lo stesso Wall Street Journal, giovedì scorso, dedicava un ampio articolo alla biforcazione totale tra ripresa economica e sentiment dei consumatori, il tutto partendo dall’ultimo sondaggio dell’istituto demoscopico Gallup. Come ci mostra il secondo grafico, solo il 25% degli interpellati è soddisfatto del trend economico del Paese, un risultato migliore a quello della crisi piena del 2008, ma che dimostra come gli ultimi cinque anni non abbiano di fatto registrato aumenti sostanziali. 

Ma come, il tasso di disoccupazione è appena sceso al 5% (vi ho già spiegato la scorsa settimana in che modo), l’economia ci dicono essere in espansione da sei anni e dal 2009 a oggi il mercato azionario ha triplicato il suo valore (grazie unicamente ai buybacks per pagare dividendi e bonus, peccato che per finanziarli le aziende Usa si siano caricate di nuovo debito a livelli record) e la gente è scontenta e timorosa per il futuro? 

 

 

Inoltre, anche l’indice della fiducia dei consumatori di Gallup nell’ultima rilevazione è peggiorato rispetto allo scorso anno, nonostante in questo lasso di tempo il tasso ufficiale di disoccupazione sia sceso e il prezzo del gas sia rimasto in area 2-2.50 dollari al gallone. In effetti, il primo grafico a fondo pagina ci mostra come l’indice di fiducia dei consumatori misurato dal Conference Board sia ai massimi e sia rimbalzato molto negli ultimi cinque anni: chi ha ragione? Io vi posso dare solo un elemento per scegliere: Gallup è il primo istituto demoscopico del Paese ed è privato, il Conference Board è un ente governativo. Ma c’è dell’altro, ovvero il secondo e il terzo grafico, freschi freschi di venerdì scorso: le vendite al dettaglio sono in pieno livello recessivo su base annua e anche la ratio tra scorte e vendite nel comparto retail sono precipitate a livello che gli Usa non hanno mai vissuto al di fuori di un periodo di recessione economica ufficiale e conclamata. E visto che il Pil Usa è retto dai consumi per il 70%, forse questi ultimi due dati sembrano dare ragione a Gallup. 

Terza e ultima ragione, il disequilibrio macro in cui versa l’economia a livello globale, con i Paesi emergenti in testa a causa della fine del super-ciclo delle commodities e il crollo dei prezzi delle stesse materie prime. Bene, guardate il quarto grafico, il quale ci mostra come dopo il Commodity Index di Bloomberg, crollato ai minimi da 16 anni, ora siano i metalli industriali di base a gridare recessione, essendo crollati del 50% dai massimi del 2011! L’indice contempla materiali fondamentali per l’industria come rame, zinco, nickel, alluminio, stagno e piombo. 

E l’ultimo grafico ci mostra tutta la follia che pervade il mondo assuefatto al denaro a pioggia delle Banche centrali: la Borsa cinese, il Paese più industriale di tutti e fino a poco tempo fa onnivoro di metalli industriali, è già risalta del 24% dai minimi di agosto, nonostante il crollo dei prezzi delle commodities base. 

La Fed non può alzare, non ci sono le condizioni macro. Il problema è però quello di cui vi parlavo all’inizio, la percezione di debolezza che un niente di fatto il 16 dicembre invierebbe ai mercati equities, già in correzione. Se alza per questo motivo, l’azzardo è enorme. Ma potrebbe esserci dietro anche un calcolo, abbastanza criminale: i tonfi borsistici che potrebbero seguire, aprirebbero la strada a un ripensamento abbastanza rapido dopo una correzione di fatto salutare, visto i multipli di utile per azione che girano a Wall Street e si potrebbe riabbassare, andare addirittura in negativo e far partire un nuovo Qe. In compenso, i mercati emergenti verranno schiantati. Russia in testa. 

 

 

 

 

 







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