SPY FINANZA/ Le manovre dell’Arabia Saudita per “comprarsi” gli Usa

- Mauro Bottarelli

L’Arabia Saudita, leader dell’Opec, sembra godere di un particolare rapporto privilegiato con i paesi occidentali, specie gli Stati Uniti. MAURO BOTTARELLI ci spiega perché

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Dopo la decisione dell’Opec di non tagliare la produzione petrolifera, di fatto un viatico all’aumento della saturazione di offerta globale di petrolio, l’Arabia Saudita ha qualche nemico dichiarato in più: la Russia, in primis. Ma non in Occidente, stranamente. Come mai? Formalmente, fatti salvi i residui degli ambienti neo-con nostrani e gli addentellati pseudo-intellettuali del fallacismo, tutti in questi ultimi giorni sarebbero dovuti scendere a patti con due realtà. Primo, la Turchia è quantomeno ambigua nella sua presunta lotta al terrorismo e, secondo, l’Arabia Saudita ne è la quinta colonna in abito presentabile all’interno del G-20, oltretutto con la leva del ricatto petrolifero pronta a essere utilizzata per finalità non economiche ma geostrategiche. Entrambe, comunque, sono fedeli alleati Usa e Nato. 

Se nel primo caso sono l’inettitudine e l’autolesionismo europeo a fare da contraltare alle evidenze sempre più schiaccianti, per quanto riguarda Ryad l’assicurazione sulla vita e sulla presentabilità è garantita dal supporto appunto degli Stati Uniti. I quali, ovviamente, operano per due ragioni: primo, l’Arabia è un proxy in un’area calda che bisogna mantenere amico per tutelare gli interessi e, secondo, Ryad ha saputo vendere bene il proprio prodotto proprio negli Usa, con una rete di spin politico da fare impressione anche ai più grandi comunicatori del mondo occidentale. 

Prima di farvi entrare nel meraviglioso mondo della manipolazione mediatica e comunicativa di Ryad, però, qualche numero per mettere le cose meglio in prospettiva. A Ryad conta una persona sola, il principe Mohammed bin Salman, trentenne molto determinato e soprattutto accentratore di ogni potere, essendo ministro della Difesa, capo dell’azienda petrolifera Aramco e presidente del Consiglio economico nazionale. Nonostante l’austerity stia segnando l’economia del Paese, con un deficit di budget già al 20% del Pil (140 miliardi di dollari l’anno) a causa delle mancate entrate petrolifere, come ci mostrano i primi due grafici a fondo pagina, il principe è convinto che il Paese possa resistere alle pressioni per un altro anno, nella speranza di fiaccare prima i suoi concorrenti. 

È stato su sua iniziativa che Re Salman ha firmato un ordine, classificato come “altamente urgente”, con il quale venivano congelate nuove assunzioni di dipendenti pubblici e bloccati tutti i progetti già messi in cantiere, il tutto per non devastare ulteriormente le riserve valutarie estere già fiaccate dai gap di bilancio da tamponare. La gran parte dei progetti petroliferi di esplorazione, soprattutto in Canada e nell’Artico, sono stati sospesi e si tratta di investimenti da circa 200 miliardi di dollari e stando alle ultime valutazioni, tra il 2015 e il 2019 gli investimenti totali sauditi caleranno di 1,5 triliardi di dollari rispetto a quanto stimato inizialmente. Di più la benzina non costerà più 10 centesimi al litro, sta per essere introdotta l’Iva e una tassa sui terreni: il tutto per non cedere alla guerra petrolifera e per finanziare contemporaneamente la guerra in Yemen, il cui costo è di 1,5 miliardi di dollari al mese e molti osservatori hanno già ribattezzato “il Vietnam saudita”. L’ultimo grafico mostra come il credit default swap saudita a 10 anni veda il rischio di bancarotta al 23%, mentre il tasso Sibor a 3 mesi – indicatore dello stress sul credito – è salito ai livelli massimi dalla crisi Lehman. 

Insomma, una situazione molto delicata che si sta riverberando anche sul livello di repressione che il regime teocratico sta mettendo in atto per scongiurare possibili proteste o rivolte popolari, tanto che a oggi sono in 53 i cittadini imprigionati e in attesa di essere decapitati, tra cui lo sceicco Nimr al-Nimr, il religioso sciita condannato a morte per avere guidato proprio le proteste popolari del 2012. Come può, quindi, un Paese che ha gli stessi metodi di gestione della giustizia dell’Isis, come ci mostra la tabella a fondo pagina, presiedere la Commissione per i diritti umani dell’Onu, fare affari con i Paesi occidentali e, soprattutto, restare un solido all’alleato degli Stati Uniti, quando anche i bambini oramai conoscono i palesi link sauditi agli attacchi dell’11 settembre? 

Semplice, attraverso un network di propaganda capillare e sofisticatissimo. E Ryad ha operato alla grande e senza badare a spese in tal senso, come ha scoperto il giornalista Lee Fang di “Intercept” che da tempo segue e svela le operazioni di propaganda mediatiche saudite presso il mondo politico e il comparto industriale statunitense. Lo scorso marzo, subito dopo aver lanciato i primi attacchi aerei e dato via alla missione di terra in Yemen, ad esempio, l’Arabia Saudita ha cominciato a impegnare significative risorse per un vero e proprio blitz di pubbliche relazioni a Washington: un campagna di PR in piena regola, necessaria per nascondere il più possibile al mondo il feroce attacco contro uno dei Paesi più poveri del Medio Oriente, una campagna che fino a oggi ha reclamato quasi 6mila vittime e migliaia e migliaia di rifugiati nella vicina Somalia. 

Al centro dell’operazione di immagine e dell’offensiva di simpatia verso gli Usa c’è stato il lancio di un portale media operato da consulenti di alto livello per la campagna elettorale del Partito Repubblicano Usa, l’apertura di un sito Internet in lingua inglese dedicato a “imbellettare” gli sviluppi della guerra in Yemen a favore dei sauditi e alcune cene molto eleganti e glamour con politici di alto livello e rappresentanti dell’elite economica, durante le quali ovviamente si operava al fine di accaparrarsi i favori di regolatori e giornalisti. 

Ma non solo. Alla faccia dell’austerity in patria, l’ambasciata saudita a Washington ha ingaggiato il fratello del capo della propaganda elettorale di Hillary Clinton, il leader di uno dei più grandi gruppi di pressione del Partito Repubblicano e anche uno studio legale con stretti legami con l’Amministrazione Obama. Inoltre, per non farci mancare nulla, Ignacio Sanchez, uno dei principali raccoglitori di fondi per Jeb Bush, è un lobbista per la causa saudita. Insomma, per usare un gergo di strada, sono belli coperti. 

Nel mese di settembre, il Regno saudita ha aiutato a sponsorizzare eleganti galà per l’elite del business di Washington presso il Ritz Carlton Hotel e l’Andrew Mellon Auditorium: alla presenza di Re Salman, in sala si trovavano i principali dirigenti della General Electrics e della Lockheed Martin, il presidente della catena Marriott International e tutto il fior fiore dei funzionari dei principali think tank. Ma non basta, perché come nella migliore tradizione dello spin, sono anche i numerosi progetti no-profit finanziati dal governo a operare attraverso i media in favore del profilo democratico di Ryad. 

 

Lo scorso 21 settembre, ad esempio, Hussein Ibish, un insegnante senior dell’Arab Gulf States Institute di Washington, un nuovo think tank interamente finanziato dal governo saudita, scrisse un editoriale nientemeno che sul New York Times, minimizzando gli ultimi due anni di presunte e supposte divergenze tra i governi Usa e saudita e, in nome di un “Saudi-American Reset” come recitava il titolo dell’articolo, insisteva sul fatto che «i nuovi contorni di una rivitalizzata e in evoluzione partenership tra Usa e Arabia Saudita stanno cominciando a prendere forma». Peccato che nell’occhiello di presentazione dell’autore, il New York Times omise di dire ai suoi lettori che il think tank di cui fa parte è interamente finanziato da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, di fatto regalando propaganda a costo zero e stampata su quotidiani Usa letti in tutto il mondo. Alla base dell’intero sforzo di spin e manipolazione mediatica e politica di Ryad c’è Qorvis, un’azienda di consulenza che ha lavorato per il governo saudita fin dai mesi successivi all’attacco contro le Torri Gemelle del 2001: recenti rivelazioni legate al Foreign Agents Registration Act statunitense hanno dimostrate che Qorvis ha creato un intero sito web dedicato alla guerra in Yemen -www.operationrenewalofhope.com -, il quale inoltre cerca potenziali supporters in Stati selezionati e si premura di offrire notizie relativa al conflitto yemenita a giornalisti interessati. L’infografica a fondo pagina esemplifica e mette in prospettiva il modus operandi saudita attraverso Qorvis. 

La sfacciataggine di Ryad, poi, non pare avere limiti, quanto la poca lungimiranza (o la molta malafede) dei media statunitensi, visto che oltre a questo sito, nel luglio di quest’anno l’ambasciata saudita a Washington ha lanciato Arabia Now, un hub online per notizie legate al Regno, stando a quanto scritto nell’elegante presentazione alla stampa. Fin dall’inizio delle pubblicazioni, il sito ha ospitato post in cui l’Arabia veniva descritta come «la più generosa nazione del mondo», arrivando al parossismo quando scrisse che «l’Arabia Saudita è stato l’unico Paese a rispondere all’appello di assistenza umanitaria lanciato dall’Onu per lo Yemen, aumentando le sue donazioni di 274 milioni di dollari». Peccato che, contemporaneamente, lo stia bombardando e le navi da guerra saudite al largo della costa bloccassero proprio l’arrivo dell’assistenza umanitaria nel Paese. 

Ma visto che l’operazione è capillare e in grande stile, Qorvis ha anche ingaggiato altre aziende per porre in essere il suo lavaggio del cervello presso l’opinione pubblica americana, tra cui Tuluna Usa, un’azienda che si occupa di sondaggi online e l’American Directions Group, una compagnia di sondaggi telefonici fondata da un sondaggista che in passato ha lavorato per Bill Clinton. Casualmente, funzionari sauditi sono ospiti regolari nei programmi di informazione dei canali via cavo negli States e tutti gli eventi che i think tank legati a Ryad organizzano a Washington DC sono finalizzati a «rassicurare i cittadini Usa sul fatto che la guerra in Yemen è anche nell’interesse statunitense». Io ho finito lo sdegno, non so voi. 

 







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