La notizia non è ancora arrivata sulle prima pagine dei giornali, né tantomeno nei titoli di testa dei telegiornali, ma purtroppo potrebbe mancare poco al suo approdo in grande stile. Tra giovedì e venerdì scorsi, infatti, due hedge funds operanti nel comparto dell’alto rendimento, il Third Avenue Management e lo Stone Lion Capital, per bloccare la fuga di capitali di investitori che tentano di scappare prima di perdere tutto, hanno bloccato le redemptions, di fatto congelando i riscatti dei clienti. Tornano i “gates” di triste memoria, per ora nel silenzio generale perché non ci troviamo di fronte a Lehman Brothers ma solo a due fondi di natura meramente speculativa, ma attenzione, perché è il mercato in cui operano che deve far riflettere: l’alto rendimento, infatti, ha un controvalore di 17 triliardi di dollari. Siamo all’inizio della sell-off nel comparto del debito più rischioso, alimentata da crescita globale pressoché nulla e crollo degli utili per le aziende operanti nell’ambito delle materie prime? Quasi certamente, tanto più che ieri si è aggiunto un terzo fondo alla lista di quelli che hanno chiuso le proprie attività, il Lucidus Capital Partners, fondato nel 2009 e che ha liquidato il suo intero portafoglio.
Sono due le cose che devono fare paura: primo, siamo al deja vu del 2007-2008, visto che allora furono mutui e immobili e ora energia e materie prime a dar vita alla valanga, ma lo shock iniziale che portò poi all’epilogo Lehman partì sempre dal comparto dell’high-yield, dai cosiddetti bond spazzatura. Secondo, la natura stessa di quel mercato si presta a un’accelerazione enorme delle crisi di liquidità, visto che operando senza gate, ovvero senza bloccare il flusso e i riscatti, quei fondi fungono l’uno per l’altro da bancomat di emergenza. Così si rischia il credit crunch molto velocemente. E Bank of America ha già alzato il livello di allerta al massimo, rendendo noto il grafico che trovate a fondo pagina, dal quale si scopre come il rendimento del “CCC and Below Bond Index” sia arrivato venerdì a 17,25%, crescendo del 2% nelle ultime due settimane e molto in fretta.
Bene, l’ultima volta che si era raggiunto un livello simile – per l’esattezza il 17,27% – è stata nel weekend precedente al fallimento di Lehman Brothers. E badate, qui non si parla di effetto psicologico, la tensione sul mercato e tra chi vi opera è veramente alle stelle in queste ore di febbrile attesa per la decisione della Fed. Come sottolinea Iain Stewart, leader del team d’investimento del Bny Mellon Global Real Return Fund, interpellato da Cnbc, «anche se i mercati del credito sono cresciuti in misura significativa dai tempi dell’ultima crisi finanziaria, il numero di market maker e di operatori primari disposti a mantenere uno stock di titoli è diminuito drasticamente. La liquidità sui mercati delle obbligazioni societarie, in particolare, è peggiorata dalla crisi del 2008 a oggi, con alti spread tra denaro e lettera». Ciò di cui vi parlavo prima, viene a mancare non solo la liquidità per assenza di grandi operatori, ma anche per il blocco dei riscatti all’interno dei fondi stessi.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Robert Scott, gestore di Schroders, che già lo scorso mese notava segni di stress nelle emissioni di bond meno scambiate, segnalando che «lo spread denaro lettera nel mercato dei bond high yield si sta deteriorando e questo ci dice che i prezzi si stanno iniziando a muovere come se l’illiquidità potesse aumentare». A creare problemi ai gestori dei fondi obbligazionari è la minore attività delle banche nel mercato dei bond: l’ammontare totale dei corporate bond detenuti dalle investment bank è ai minimi storici e c’è quindi preoccupazione che questo minor potenziale di acquisto da parte degli istituti faccia venir meno il loro ruolo di ammortizzatori di shock nel mercato.
I broker infatti stanno riducendo l’attività sul mercato dei bond per prendere meno rischi diminuendo l’attività dei desk proprietari per via dell’aumento della regolamentazione dopo la crisi del 2008. E proprio la Sec, l’ente di vigilanza del mercato statunitense, è molto preoccupata per la liquidità dei fondi e di recente ha proposto nuove regole che mettono sotto pressione i gestori di fondi sul fronte della trasparenza circa le posizioni di portafoglio e sul numero di giorni che occorrono per convertirle in liquidità. In base alle nuove norme, che sono attualmente in consultazione, i gestori dei fondi domiciliati negli Usa sono chiamati a classificare i propri comparti in base al numero di giorni necessari a convertire i propri asset in cash: ai money manager è anche richiesto di detenere un ammontare minimo di titoli che può essere liquidato in tre giorni senza che questo influenzi il prezzo di questi asset prima della vendita La paura è che, se dovesse verificarsi una fase in cui tutti gli investitori cercano di uscire dalle proprie posizioni, i gestori di fondi sarebbero costretti a vendere gli assets in perdita per soddisfare i riscatti, determinando una vera e propria crisi di liquidità.
E come vi dicevo, la correlazione è come il caso Lehman Brothers, dopo il fallimento della quale alcuni fondi collocati anche in Italia al retail non riuscirono a fare prezzo e per diverso tempo furono bloccati riscatti e sottoscrizioni dei prodotti. «Se un evento inaspettato dovesse scatenare una fase di volatilità acuta, determinando ampi riscatti dai fondi d’investimento, molti temono che i gestori non sarebbero in grado di vendere gli attivi in tempi brevi; il panico risultante amplificherebbe il calo delle valutazioni e aumenterebbe ulteriormente la volatilità, in un circolo vizioso», ha concluso Stewart.
Addirittura il Fondo monetario internazionale ha richiesto un giro di vite sulle normative di un’industria che nel suo complesso acquista e vende titoli per 76 triliardi di dollari ogni anno, un ammontare che equivale al controvalore dell’intera economia globale. E, quindi, potenzialmente in grado di danneggiarla in maniera quasi irreparabile. Tanto più che domani la Fed potrebbe alzare i tassi di un quarto di punto, operazione che sul mercato si sostanzierebbe nel drenaggio di 800 miliardi di dollari di liquidità e fino a 2,4 triliardi di dollari se si assume come scenario quello di un ciclo di aumento fino a 75 punti base, di fatto in tre step da un quarto di punto l’uno. Insomma, i rischi salgono molto, ma quantomeno sono rischi conosciuti, visto che chi investe nell’alto rendimento sa che quegli yield spaziali, a volte quasi vicini alla doppia cifra, sono altrettanti cerini che rischiano di restarti in mano.
È quasi un roulette russa, ma lo si fa per scelta, per guadagnare speculando, ben consci di poter restare attaccati a quella scommessa a sventolare come una bandiera nella tempesta. Ben diverso è quanto accaduto agli obbligazionisti subordinati della quattro banche popolari salvate dal governo Renzi-Boschi attraverso il bail-in, ovvero azzerando il valore di quella carta che è storicamente un ibrido tra obbligazione e titolo azionario, ovvero uno strumento che porta con sé rischio di mercato non essendo debito puro. Ora, non entro nel merito della querelle politica scatenata dalle truffe agli sportelli bancari – perché di questo si è trattato nella stragrande maggioranza dei casi – ma sulla sistemicità della vicenda, visto che minare la fiducia dei cittadini e delle imprese nei confronti del sistema bancario è il primo passo verso il suicidio economico di un Paese. E gli istituti di credito ci hanno messo molto del loro, anche se le responsabilità maggiori a mio avviso vanno tutte in capo a Bankitalia e Consob, quantomeno distratte e impreparate, volendo prendere in considerazione solo l’ipotesi migliore e più beningna.
Attenti, perché il sistema bancario italiano non è affatto sanissimo come continuano a ripetere i pappagalli della politica: certo non è a pezzi, non è a rischio di imminente default ma siede sul 14,3% di sofferenze contro la media europea di poco più del 7% e su detenzioni di debito pubblico che superano i 400 miliardi di euro, molto sensibili a scostamenti non solo degli spread ma anche del sentiment di mercato, se per caso la crisi di liquidità dovesse tracimare dal settore dell’alto rendimento. Ieri il bond subordinato LT2 al 7,321% di Banca Carige è passato da 105 a 85 nell’arco di un battito di ciglia, arrivando ora a rendere un lunare 10%: peccato che in questo caso non sia carta da piazzare in maniera fraudolenta e criminale a vecchiette inconsapevoli o a chi pur di ottenere un mutuo è pronto a firmare di tutto. Si tratta infatti di un bond per investitori professionali che viene collocato con tranche minima di 50mila euro. Il tutto, mentre il titolo azionario di Carige toccava il minimo record di 1,2 euro.
Cosa sa il mercato che noi poveri cristi non sappiamo? Perché gli investitori istituzionali hanno paura, scappano e fanno schiantare bond e titolo? Attenzione, viviamo tempi silenziosamente pericolosi. È il mercato (drogato e manipolato), bellezza!