L’Arabia Saudita parte al contrattacco. Sabato scorso nel mio articolo vi mostravo l’enorme macchina di pubbliche relazioni messa in campo da Ryad dopo l’11 settembre per ingraziarsi i poteri politico e mediatico statunitense, oggi vi mostro come questa strategia si stia sostanziando in qualcosa di molto concreto. E pericoloso. L’inizio di questa settimana è stato infatti caratterizzato, tra le altre cose, dalla notizia che ben 13 donne sono state elette nei consigli comunali dell’Arabia Saudita nelle prime elezioni in cui sono state ammesse candidature di entrambi i sessi: si tratta di meno dell’1% dei 2.106 seggi assegnati nel voto di sabato, ma comunque una prima assoluta per lo Stato culla del wahabismo, l’interpretazione più intransigente e severa dell’Islam sunnita.
Casualmente, i sauditi che hanno votato sono stati 1.486.477, di cui solo 130.637 donne perché queste ultime hanno avuto ostacoli burocratici e spesso problemi di trasporto per recarsi ai seggi non potendo guidare. Ma non importa, la cosa fondamentale è che al mondo arrivi solo il titolo: 13 donne elette in Arabia Saudita. Immediatamente, l’acqua battesimale della democrazia mediatica e cialtrona occidentale è stata aspersa sul capo dei tagliatori di testa di Stato (oltre 100 di decapitati da inizio anno). Ma non basta, perché ieri è arrivato il “rinforzino”, per dirla come il conte Mascetti di Amici miei: è nata una “coalizione militare islamica” contro il terrorismo. E chi sarà a coordinarla? Guarda caso, l’Arabia Saudita, la cui agenzia stampa ufficiale ha pubblicato l’elenco dei trentaquattro Paesi che ne fanno parte.
Tra gli aderenti ci sono l’Egitto del generale al-Sisi, la Turchia del presidente Erdogan, ma anche Pakistan, Senegal, Indonesia, Giordania, Libano, Tunisia e Libia. L’alleanza, di cui almeno dieci Paesi sono a forte maggioranza sunnita, ha il centro di comando a Ryad per «sostenere le operazioni militari nella lotta al terrorismo globale». Non hanno ovviamente aderito l’Iraq, la Siria e neppure l’Iran, patria dello sciismo e storico rivale della petromonarchia del Golfo. L’obiettivo dichiarato della nuova alleanza militare è «proteggere le nazioni dai mali provocati da tutti i gruppi e da tutte le organizzazioni terroristiche, a prescindere dalla loro dottrina e che si rendono responsabili di uccisioni o che diffondo la corruzione nel mondo e mirano a terrorizzare gli innocenti».
Ora, al di là dell’assurdo rappresentato dall’Arabia Saudita che si pone in contrasto al terrorismo, un vero e proprio ossimoro essendo Ryad il principale finanziatore storico del salafismo più intransigente e violento (sarebbe come chiedere a Rocco Siffredi di fare da testimonial a una campagna contro i rapporti pre-matrimoniali), la cosa incredibile è come tutti i mezzi di informazione abbiano applaudito a questa iniziativa in maniera acritica, non spendendo nemmeno cinque minuti per cercare di capire cosa essa sottenda (io sono sempre positivo e penso che sia sciatteria, non malafede quella dei cosiddetti organi di informazione “autorevoli”).
A mio avviso, sono tre le agende nascoste di questa iniziativa. Primo, evitare la costruzione del cosiddetto “corridoio” sciita tra Iran, Iraq e Siria, il quale riuscirebbe a prendere il controllo – avendo anche l’avamposto libanese di Hezbollah – in un’area dove invece i sunniti guidati proprio da Ryad e dai Paesi del Golfo hanno sempre fatto il bello e cattivo tempo, potendo contare anche sull’argine orientale della Turchia. Secondo, sempre in ossequio alla casualità che sono un must di ogni iniziativa che veda impegnata l’Arabia Saudita, il 10 dicembre scorso, Ash Carter, capo della strategia americana verso l’Isis in seno al Comitato sulle forze armate del Senato, rese noto che gli Usa sono pronti a schierare anche elicotteri d’assalto in sostegno all’esercito iracheno per «portare a termine il lavoro». Quale? La riconquista di Ramadi, la città più grande della maggior provincia irachena, ma soprattutto bastione sunnita e dell’Isis, prima dell’assalto finale per riprendere il controllo di Mosul.
A Washington stavano già muovendosi in tal senso ma spacciandosi per amici, tanto che dietro al ritiro delle truppe turche proprio dall’Iraq ci sarebbe l’ordine di Washington nei confronti di Obama per non irritare i governi di Baghdad e Teheran, oltre che i russi. Ma i piani reali di Usa e Arabia Saudita sarebbero esattamente opposti: non combattere l’Isis, ma abbattere Assad in Siria e depotenziare l’asse sciita. Come? La strategia è già pronta, visto che stando a quanto riportato da RT, mai smentita, durante un meeting a Baghdad dello scorso 27 novembre, il senatore repubblicano John McCain – uno che l’Isis lo conosce bene, avendo contribuito a farlo crescere quasi fosse un figlio – avrebbe detto al primo ministro iracheno, Haider Abadi e una ristretta schiera di funzionari e ufficiali dell’esercito che «truppe straniere nell’ordine delle 100mila unità saranno dislocate nelle regioni occidentali dell’Iraq, di cui 90mila provenienti da Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Giordania, più 10mila truppe statunitensi». Addirittura, McCain definì la decisione «già presa e non negoziabile».
Stranamente, ecco le parole pronunciate il 9 dicembre scorso dallo stesso John McCain: «Una piccola componente di forze americane insieme a forze internazionali potrebbe andare e sconfiggere il Califfato. Se andiamo con una forza araba molto ampia, che comprenda anche turchi ed egiziani, possiamo avere la meglio di 20-30mila uomini dell’Isis, non sono dei giganti». E, sempre lo stesso giorno davanti al Comitato parlamentare, ecco il redivivo Jimmy Carter annunciare come nel suo sforzo diplomatico abbia contattato 40 Paesi e che a suo modo di vedere i Paesi del Golfo e la Turchia devono intervenire più attivamente “in the game”. Le combinazioni, a volte sono davvero pazzesche, non credete?
Ed eccoci arrivati alla terza agenda nascosta della strategia saudita, benedetta e concordata con l’Amministrazione Obama: salvare a ogni modo il Regno dall’incombente crisi finanziaria legata al prezzo del petrolio in calo e dopo la folle decisione, presa proprio da Ryad come membro forte dell’Opec, di non abbassare il livello di produzione giornaliera, aumentando così la saturazione del mercato che per il 2016 vedrà un surplus giornaliero di 700mila barili. L’azzardo di Ryad, ovvero pompare di più e cercare di rubare quote di mercato estero ai suoi competitor (Usa, Iran e Russia) non ha pagato e, anzi, sta risultando decisamente controproducente, tanto che le casse del Regno piangono per i mancati introiti e per i miliardi che si stanno spendendo per la criminale guerra in Yemen.
La Russia, infatti, ha capito che la guerra da vincere in primo luogo è quella della sopravvivenza e l’altro giorno il vice-ministro delle Finanze, Maxim Oreshkin, ha reso noto che il Paese sta preparandosi per uno scenario energetico che vedrà il prezzo del barile a 40 dollari di minimo e 60 di massimo per i prossimi sette anni, una prospettiva che se si rivelerà concreta avrebbe conseguenze devastanti per i membri dell’Opec. E come ci mostra questo grafico, gli short sul petrolio sono ai massimi storici, quindi anche la speculazione punta decisa verso nuovi minimi, dopo che l’altro giorni si è scesi sotto quota 35 dollari, livello che non si vedeva dal 2004.
Intervistato dal quotidiano Vedomosti, Oreshkin ha dichiarato che «vivremo in una realtà completamente diversa da qui al 2022». E la stessa Bank of America ha parlato chiaramente del rischio di una guerra dei prezzi su ampia scala se Arabia Saudita e Iran ingaggeranno uno scontro per la conquista di quote di mercato. L’International Energy Agency nel suo ultimo report mensile ha detto chiaramente che «l’Opec ha smesso di operare come un cartello e sta pompando in base alla volontà dei suoi membri», questo proprio per cercare di tagliare fuori i rivali dal mercato.
Un’idiozia, ma che mostra plasticamente la disperazione di Ryad di fronte a numeri che parlano chiaro: gli introiti dell’Opec caleranno a 400 miliardi quest’anno, quando solo nel 2012 erano a 1,2 triliardi. E questo spiegherebbe perché Washington sia stata non solo sponsor ma ideatrice dell’allegra brigata araba contro l’Isis, come la visita di McCain in Iraq ha dimostrato. Con cali simili degli introiti dei Paesi produttori, infatti, rischia di saltare del tutto il riciclo di petrodollari nel sistema finanziario Usa e globale, visto che non si investono più i surplus garantiti dall’export di greggio in assets Usa e denominati in biglietti verdi, ma, anzi, si drenano risorse dai mercati. E il fatto che ci sia ancora spazio per lo stoccaggio, visto che nuove location pronte a custodire 230 milioni di barili sono quasi pronte – molte in Cina -, mentre le scorte Usa sono ancora al 70% della capacità totale, fa pensare che potrebbe essere la Russia a voler giocare d’azzardo ora, aumentando ancora la produzione, dopo che a ottobre a stabilito il nuovo record post-sovietico.
Per il vice-premier russo, Arkady Dvorkovich, «l’Opec a un certo punto dovrà cambiare tattica, possono durare ancora un po’ di mesi, ma non di più». E, infatti, proprio ieri sul mercato hanno cominciato a circolare voci di una possibile riunione d’emergenza del cartello petrolifero entro la prossima primavera per tagliare la produzione e dare un po’ di ossigeno ai prezzi, rumors che hanno garantito un minimo rimbalzo al prezzo del greggio. Insomma, la Russia sta andando a vedere il bluff saudita come in una partita di poker e allora serve intervenire, fare altro: una bella missione congiunta contro il terrorismo, “tutto il terrorismo”, come si sono affrettati a sottolineare a Ryad. E magari, durante questa guerra, qualche pipeline od oleodotto può essere colpito, inviando uno shock rialzista sul mercato, senza dover fare la figuraccia davanti al mondo di tornare sulle proprie posizioni in seno all’Opec e svelare a tutti che il Re è nudo.
Certo, molti fanno notare che questo è un azzardo anche per Mosca, visto che l’economia è in recessione e il deficit di budget è salito al 4,4% del Pil, includendo tutte le liabilities governative. Di più, servono 40 miliardi di dollari solo per ricapitalizzare il sistema bancario, ma la Russia ha ancora riserve che Ryad non ha più e, soprattutto, ha un alleato munifico come la Cina, la quale ha anticipato a Rosneft e Gazprom parte dei soldi per il mega-contratto di fornitura siglato lo scorso anno, permettendo alle due aziende di onorare tutto il debito estero in scadenza.
Attenzione, al Cremlino non c’è più l’ubriacone Eltsin che fece la gioia di oligarchi e gentaglia di ogni risma pronta a depredare le ricchezze del Paese, c’è Vladimir Putin e la sua santa alleanza, sia con la Cina che con Siria e Iran in Medio Oriente. Ci penserei due volte a fare strani errori, se fossi Ryad, perché se al primo caccia abbattuto Mosca ha soprasseduto, se dovesse accadere altro, penso che parte dell’Arabia Saudita sarebbe ridotta a posacenere.