SVENDITA ITALIA/ Quei “saldi” che premiano (solo) la grande finanza

- Gianluigi Da Rold

Nel 2016 l’Italia dovrà privatizzare FS per rispettare i piani del Def. Ma si tratta di una corsa a ostacoli, spiega GIANLUIGI DA ROLD, che non aiuta di certo a vendere bene

treno_sciopero_milanoR439 Sciopero oggi (Infophoto)

In una delle più cupe pagine del CorrierEconomia di lunedì scorso salta fuori la sorpresa che se slitta al 2017 la privatizzazione delle Ferrovie dello Stato non si raggiungono gli obiettivi fissati dal Def (Documento di economia e finanza) per il 2016. Nella “furia” di apparire moderni, neoliberisti o quanto meno autentici capitalisti, il Governo del “grande rottamatore” Matteo Renzi e del suo “guru economico” Pier Carlo Padoan, ha fissato come traguardo per l’agenda delle privatizzazioni mezzo punto di pil, uno 0,5% che si traduce in otto miliardi di euro. Ma gli otto miliardi verrebbero solo in parte dalle privatizzazioni di Grandi Stazioni e dell’Enav (l’azienda che offre i servizi per la navigazione aerea). È naturalmente Ferrovie dello Stato, il “piatto forte”. Se slittasse quest’ultima privatizzazione, alla fine arriverebbe nelle casse dello Stato solo poco più di un miliardo e gli obiettivi sarebbero tutti da ripensare.

Che cosa sta succedendo in realtà? Recentemente è stato nominato al vertice di Ferrovie dello Stato Renato Mazzoncini, un ingegnere bresciano con vocazione “fiorentina”. Mazzoncini ha già curato, ad esempio, la cosiddetta privatizzazione dell’Ataf (l’azienda tranviaria fiorentina) ai tempi di Matteo Renzi sindaco. Più che di una privatizzazione, si trattò di un passaggio dell’Ataf dal Comune a una società controllata dallo Stato. Ma “tutto fa brodo”, anche il fatto che a curare l’operazione ci fosse l’allora, solo come avvocato, Maria Elena Boschi, per il Comune di Firenze. Saranno solo coincidenze.

Sta di fatto che l’operazione che si appresta a fare adesso Mazzoncini è un po’ più complessa. Privatizzare il 40% di Ferrovie significa trattare oltre quattro miliardi di euro. Mazzoncini, che deve essere “rapido e veloce “ come Renzi, si è messo subito al lavoro, anche con l’advisor del Tesoro che, secondo tradizione italiana dopo la scomparsa della prima repubblica, è sempre una banca d’affari anglosassone, in questo caso Merrill Lynch .

Malgrado tutto questo, nonostante la velocità, anche Mazzoncini ha davanti alcuni problemi piuttosto complessi. Il primo di questi è se la rete, cioè i binari, possa essere scorporata dal gruppo che dovrebbe quotarsi in Borsa. Poi c’è una serie di nomine che devono essere fatte: il presidente della rete Rfi; il commissario per l’Alta velocità al Sud e pure il presidente di Grandi Stazioni. Infine c’è un problema regolatorio complessivo, perché la riforma del trasporto pubblico locale è ancora in corso. In definitiva, sembra dire Mazzoncini: “Ci proviamo”. Ma sono gli ambienti finanziari che ci credono poco a che vengano varate tute queste operazioni e mettono in giro voci sgradevoli sul possibile ritardo che farebbe fallire gli obiettivi all’Italia.

E in questo percorso tutto a ostacoli, si vede, come in tutta la storia delle privatizzazioni italiane, la “grande fretta”, non quella dell’efficienza, ma soprattutto quella che è destinata a fare cassa, che vuole fare cassa. E questa “grande fretta” non ha mai portato a buoni risultati.

Ci si permetta solo qualche considerazione. Quando gli ambienti finanziari cominciano a essere diffidenti sui tempi fanno il loro mestiere, probabilmente tirano anche sul prezzo, oppure mettono in atto depistaggi di basso o “alto” livello a seconda di chi giudica. Non siamo amanti degli sceneggiati televisivi, ma abbiamo ancora la memoria abbastanza buona. Chissà se in “1992” viene ricordato l’annuncio del 18 luglio di Giuliano Amato.

Quello fu un annuncio “funesto”, che diede il via alle privatizzazioni all’italiana, cominciando con la liquidazione del terzo grande ente di Stato, l’Efim, e due sanguinose finanziarie, con le mani dello Stato non in tasca, ma direttamente sul conto corrente degli italiani. Il famoso “dottor sottile”, senza più Craxi nell’ufficio accanto, si mosse come un “elefante in un negozio di maioliche” e fu preso “a sberle” dal celebre Financial Times, nonché costretto più tardi a una patetica autocritica.

Ancora adesso, dopo tanto tempo, ci vedi tutta la fretta, la convulsione impolitica, l’incapacità di muoversi cercando di non far vedere che privatizzi perché hai una stretta necessità di fare cassa. Altrimenti finisci per svendere, non per valorizzare con una vendita oculata quello che hai in casa. Questo documento del Def per il 2016 non poteva essere meditato più accortamente?

Noi saremo probabilmente dei “pessimisti” cronici o dei “gufi”. Ma vorremmo ricordare che quell’annuncio di Giuliano Amato del 18 luglio 1992 non avviò con le privatizzazioni un risanamento dei guai italiani. La realtà attuale è sotto gli occhi di tutti, certamente aggravata dalla grande crisi finanziaria del 2007. Ma in tutti i casi, le privatizzazioni che dovevano essere la carta del “riscatto italiano” hanno portato poco nelle casse dello Stato; hanno causato un crollo di presenza in alcuni settori produttivi strategici dell’Italia; hanno messo in scena il romanzo Telecom, che oggi è finito in mani francesi dopo “l’intemerata” dalemiana dei “capitani coraggiosi”; hanno arricchito soprattutto le banche d’affari anglosassoni che hanno curato “meticolosamente” svendita e collocazioni delle nostre aziende statali, in cambio di parcelle onerose per le loro commissioni.

Non vorremmo che il “superveloce” Matteo Renzi ricadesse nell’errore del “fare presto per fare cassa” e soprattutto si avventurasse in numeri e obiettivi da raggiungere che poi restano una chimera. Con altre privatizzazioni mal congegnate si potrebbe dire, quasi banalmente, che se è stato umano sbagliare la prima volta, è diabolico perseverare adesso, proprio quando c’è carenza di investimenti pubblici e la permanente situazione da anti-ciclo dell’economia richiederebbe uno Stato innovatore e magari anche parzialmente, per qualche periodo, imprenditore.

È’ vero che il neoliberismo ha vinto su tutta la linea, ma visti i risultati complessivi e le condizioni in cui vivono milioni di persone, potrebbe essere utile ascoltare anche qualche consiglio di economisti che negli ultimi anni sono diventati eretici, ma che in fondo sono sempre stati dei liberali con moderazione e raziocinio.







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