Quando nell’ordine del giorno del Consiglio dei ministri del 20 gennaio è comparso il punto “Disposizioni urgenti per il sistema bancario e gli investimenti”, il carattere di urgenza della misura che sarebbe stata presa, con tanto di decreto legge, avrebbe fatto pensare che finalmente il Governo italiano si fosse deciso a porre rimedio all’emergenza dei crediti in sofferenza, che tanto hanno penalizzato le banche italiane nei recenti stress test europei e che ancora rappresentano un grosso problema, dato che proprio il giorno prima del Cdm l’Abi ha segnalato che le sofferenze bancarie (stiamo parlando ormai di 181 miliardi di euro) sono cresciute di oltre il 21% in un anno (e i dati risalgono a novembre). Tanto più che nelle settimane precedenti anche i quotidiani finanziari avevano diffuso notizie, mai smentite e continuate anche nei giorni più recenti, di tecnici di palazzo Chigi al lavoro sul tema. Altrove, si sa, sono state costituite bad bank o fondi alimentati con soldi europei proprio per “ripulire” i bilanci bancari e liberare risorse utili per il credito, ma non in Italia. Un po’ perché si è sempre detto che le banche italiane sono “migliori” delle altre europee, un po’ perché lo Stato non ha risorse per aiutare i banchieri (e quando lo fa diventa impopolare).
Dunque, dicevamo, questo provvedimento si sarebbe immaginato. Invece no, il Governo ha deciso che dieci banche popolari entro 18 mesi dovranno trasformarsi in Spa. Renzi ha spiegato che “abbiamo troppi banchieri e troppo poco credito”. Forse il Premier pensa che esista una relazione indiretta tra banchieri e credito, per cui diminuendo i primi aumenta il secondo. Se così fosse allora vada fino in fondo e per decreto stabilisca la nascita di un’unica banca nazionale che inglobi tutte le esistenti, almeno ci sarà credito abbondante per tutti!
La ratio del decreto e della sua urgenza sono state spiegate con generiche necessità di adeguarsi a un contesto europeo che si è trasformato negli ultimi anni. Onestamente ci sfugge quali siano gli eventi che non rendono più possibile l’esistenza di dieci banche popolari quotate. Su di esse forse la Bce non può esercitare i nuovi poteri di vigilanza bancaria unica europea che le sono stati attribuiti? La mancanza di dovute spiegazioni e altri dettagli di non poco conto gettano più di un sospetto sul decreto di riforma delle popolari. E non ci riferiamo solamente alla parentela del ministro Boschi (Il Fatto Quotidiano ha mostrato i legami personali – e non solo parentali – con la Banca dell’Etruria) o alle amicizie, alle frequentazioni e ai “consulenti” del Premier che hanno società di investimento a Londra, City della finanza e degli hedge fund (e città in cui, come ha spiegato Il Corriere della Sera, si sono concentrati gli acquisti dei titoli delle Popolari quotate nei giorni che hanno preceduto il Cdm – vicenda su cui la Consob ha deciso, fortunatamente, di indagare).
In primo luogo, come tutti sanno, un decreto legge deve essere controfirmato dal Presidente della Repubblica. E non si può non notare che il provvedimento (concertato con Bankitalia o no, visto che Visco ha detto di non saperne nulla?) è arrivato pochi giorni dopo le dimissioni di Giorgio Napolitano. Se le trasformazioni europee tanto declamate non sono avvenute l’altro ieri, perché il decreto non è stato presentato a fine 2014 o a inizio 2015 quando al Quirinale c’era ancora qualcuno? Il provvedimento sulle banche, poi, doveva essere inserito nel cosiddetto “investment compact”, che doveva contenere anche misure per dare certezze fiscali agli investitori stranieri. Quest’ultimo punto è stato però stralciato dal decreto e in conferenza stampa il Sottosegretario Delrio ha motivato la scelta con l’esigenza di “rispettare la vacanza del Presidente della Repubblica”. Per le norme fiscali sì e per quelle bancarie no?
Beh, certo, questa assurdità una sua logica ce l’ha. La riforma delle banche popolari è improvvisamente diventata una priorità del Governo. Non ve n’è traccia nei programmi (pardon, nelle slide) presentati da Renzi nei mesi scorsi, dai 100 ai 1000 giorni, dalle svolte buone ai cresci-Italia. Eppure cancellare le banche popolari quotate è più importante del varo della legge elettorale, della riforma della giustizia, dei decreti attuativi del Jobs Act, del porre rimedio all’autogol sulle Partite Iva, della riforma della Pubblica amministrazione e di tutti quei cambiamenti che l’Italia attende da anni o decenni. Dunque, che importa se il Presidente della Repubblica non c’è: avanti tutta secondo i desiderata dell’ex Sindaco di Firenze!
Le conseguenze del decreto sono comunque ormai chiare a tutti. Gli scenari che si aprono sono due: le banche popolari quotate trasformate in Spa, diventate contendibili e scalabili, vengono comprate da soggetti stranieri (quelli italiani o non hanno abbastanza soldi o verrebbero bloccati dall’Antitrust) a prezzi decisamente convenienti; oppure, per evitare di essere “mangiate”, le banche popolari si accorpano tra di loro o si fondono con banche tradizionali, così da diventare “bocconi” più costosi per essere comprati.
I mercati questo lo sanno e si preparano già a due anni in cui nel settore bancario se ne vedranno delle belle. Ma non si può non notare che insieme alle banche popolari a Piazza Affari sono cresciute anche Carige e Mps, con quest’ultima in particolare che è balzata da 46 a oltre 50 centesimi ad azione in pochi giorni (prima dell’annuncio del Qe della Bce e prima che iniziasse una pioggia di vendite che ha portato il titolo a nuovi minimi storici), pur non essendo una popolare. Quello che anche i muri sanno e che anche alcuni giornali scrivono è che la manovra del Governo porta con sé due matrimoni: quello tra Bpm e Carige e quello tra Ubi Banca e Mps. Quello che forse alcuni dimenticano è che la banca senese non è certo immune da “contatti” con il partito del Premier. Che di fatto avrebbe “garantito”, questo è un altro sospetto, il “salvataggio” di Montepaschi.
Mentre in Italia si aprirà una nuova “stagione delle Opa”, il problema dei crediti in sofferenza e degli incagli resterà lì, almeno finché non arriverà un provvedimento, una misura a risolverlo. Magari con i soldi della Bce. E allora qualche maligno non potrà non pensare che la cancellazione delle popolari quotate possa non essere altro che una contropartita verso un ex presidente di Bankitalia che mai ha nascosto la sua antipatia per quella “anomalia” italiana che ha tenuto lontani i “turbo-finanzieri” (portatori di benessere?) dalle banche dei territori. Poi, per carità, sarà utile che le banche popolari cambino qualcosa nella loro governance e siano meno autorferenziali, come ha evidenziato Giorgio Vittadini nel suo articolo. Ma in un modo diverso e meno sospetto dei “diktat” di Palazzo Chigi.
P.S.: Renzi da Davos ha difeso la riforma del settore bancario, evidenziando come i governi precedenti non avessero agito sul tema. Ci sentiamo solo di ricordare al Premier che il suo precedessore, Letta, ha dato via libera, sempre con Decreto legge, alla riforma della Banca d’Italia: un altro provvedimento altamente urgente (?) su cui si sono condensati diversi sospetti. Alla faccia delle svolte!