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Home » Economia e Finanza » SPY FINANZA/ Dagli Usa al Giappone, il crash in arrivo sui mercati

  • Economia e Finanza

SPY FINANZA/ Dagli Usa al Giappone, il crash in arrivo sui mercati

Le politiche delle banche centrali, spiega MAURO BOTTARELLI, non sembra aver fatto altro che alimentare i mercati finanziari. E ora non ci si può che attendere una correzione

Mauro Bottarelli
Pubblicato 2 Aprile 2015
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Infophoto

Nemmeno un giorno dalla mia analisi rispetto ai corsi rialzisti di Wall Street e al sostegno garantito loro dai buybacks azionari ed ecco che escono dati freschi freschi al riguardo, numeri decisamente in grado di confermare la mia teoria. Con la sua politica di allentamento, infatti, la Fed non ha fallito solamente nei confronti degli Usa e della loro economia, ma, soprattutto, verso quei cittadini americani che dovrebbero essere statutariamente i beneficiari delle politiche della Banca centrale: la Fed, così come gli altri istituti centrali, hanno garantito benessere soltanto alle banche e all’1% più ricco del pianeta, il tutto in assoluta impunità. Anzi, garantendosi anche gli applausi dei keynesiani. 


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L’obiettivo supposto della Zirp (Zero Interest Rate Policy) prima e del Qe dopo era infatti rendere più facile il prestito verso aziende e privati cittadini, ovvero garantire alle compagnie di investire in nuova capacità produttiva e ai consumatori di comprare quei beni e servizi resi possibili dal credito a basso costo. Il secondo obiettivo mandatario era poi quello di garantire un rally azionario, obbligazionario e del settore real estate, il quale avrebbe diffuso un effetto benessere sull’intera economia: se i cittadini vedono salire il proprio reddito, questo li fa sentire più benestanti e li spinge a comprare beni e servizi che altrimenti non avrebbero acquistato a credito. 


Fondi per la ricerca/ Oltre 94 mln destinati a 10 istituti: quali?


Queste le finalità ufficiali, peccato che le vere ragioni che hanno sotteso sia lo Zirp che il Qe siano state la ricostruzione degli stati patrimoniali e dei profitti delle banche alle spalle dei risparmiatori, i quali grazie alla manipolazione dei mercati compiuta dalla Fed hanno guadagnato pressoché zero. E le grandi aziende, le corporations, come hanno utilizzato il denaro a costo pressoché nullo della Fed? Hanno investito in capacità produttiva? No, hanno ricomprato i propri titoli azionari per un controvalore di triliardi di dollari, al fine di far salire le quotazioni, abbassare il flottante e garantire i bonus ai super-manager, come ci dimostra il grafico a fondo pagina che visualizza la crescita dei buybacks dalla fine della recessione, con il dato attuale vicino ai massimi record di sempre. Il problema è che quando le corse al buyback finiscono, per svariati motivi, l’epilogo è sempre lo stesso: il mercato si schianta. 


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Per lo strategist di Goldman Sachs, David Kosten, nel corso di quest’anno i buybacks cresceranno del 18%, pari a oltre 700 miliardi di dollari, ma Will Becker, analista presso “Behind the Numbers”, pensa invece che «il cash flow libero per molte aziende potrebbe trovare presto venti contrari e questo potrebbe porre non poche difficoltà nella prosecuzione dei programmi di riacquisto azionario, ad esempio per aziende come Cisco Systems (a causa dei costi della ristrutturazione interna che verrà operata in estate), General Mills (deficit di cash flow previsto nei dodici mesi che termineranno ad ottobre), Coca Cola (costi di ristrutturazione a causa del calo della domanda) e Philip Morris International (costi di ristrutturazione dopo lo spin-off come Altria)». Insomma, il denaro a costo zero della Fed per i finanzieri non ha fatto altro che arricchire i top-management delle corporations americane e l’1% delle popolazione che detiene il maggior numero di titoli azionari, oltre che i fondi private equity, i quali non hanno certo costruito nuovi impianti o assunto nuovo personale o finanziato startups, bensì cannibalizzato aziende esistenti, succhiato loro la linfa vitale e tesaurizzato il business a basso costo, vedi l’operazione Kraft-Heinz. 

D’altronde, quando compri una catena di farmacie o un’aziende per il noleggio di auto e le carichi di debito, non stai investendo in produttività dell’economia. E quando tagli nuovi prodotti e servizi, stai addirittura rimuovendo produttività dal ciclo economico: il private equity ha generato benessere solo per se stesso e per i fondi pensione, ma ha distrutto ricchezza nell’economia pari a un 1% del Pil in un tasso di ripresa che era già al di sotto della parità. 

Insomma, la Fed ha abbassato il tasso di produttività e il Pil e ha lasciato in mutande i risparmiatori, soltanto per rendere più oscenamente ricchi i già ricchi: solo tra il 2009 e il 2012 parliamo di qualcosa come un aumento degli introiti per l’1% più ricchi del 31,4% – o il 95% in guadagno totale – contro il rimanente 99% della società che ha beneficiato di un misero 0,4%. Sono cifre e dati di fatto, non ideologia, né pauperismo d’accatto. Come d’altronde lo sono i numeri contenuti nel primo grafico a fondo pagina, il quale compara il livello di volatilità implicita tra diverse asset classes: come vedete, il Vix dell’indice azionario Standard&Poor’s è placido come un lago alpino, mentre quello di petrolio, valute e tassi è in estremo stato di fibrillazone. Quanto può durare una situazione di decoupling del genere, con le equities unica nota positiva dell’intero quadro economico-finanziario? E pensate che solo la Fed abbia ottenuto questi strabilianti risultati? 

Pur essendo leader assoluto nel settore, la Banca centrale Usa ha comunque nella Bce un valido assistente, come ci dimostrano il secondo e il terzo grafico, i quali ci mostrano da un lato come il Qe di Draghi – entrato nella sua terza settimana di acquisti, già in calo – abbia schiantato la curva negativa del Bund, ora sotto zero come rendimento fino alla scadenza di 7,5 anni e dall’altro ha fatto salire con i suoi acquisti onnivori il carico di debito non eligibile in Europa, visto che qualcosa come 2,17 trliardi di euro di obbligazioni sovrane oggi tradano con yield negativo. 

Pensate che una situazione simile possa finire bene? No e infatti, nel silenzio generale dei media troppo impegnati a glorificare Mario Draghi, nelle stanze che contano della finanza si parla già oggi di possibile “taper” da parte della Bce, ovvero della chiusura anticipata del programma di Qe, prevista ufficialmente per il settembre 2016. A dare forza a questa ipotesi ci sono alcune variabili, come ad esempio un aumento della crescita o dell’inflazione, un balzo incontrollato del prezzo degli assets o la scarsità di bond da acquistare: «Ci aspettiamo che l’Eurotower decida di tagliare i suoi acquisti di bond già nel secondo semestre di quest’anno», ha sentenziato l’analista di DZ Bank, Hendrik Lodde. 

Come vi dicevo prima, infatti, il Qe della Bce si basa su un paradosso: più ha successo nel far crollare i rendimenti, più aumenta la scarsità di obbligazioni eligibili all’acquisto visto il floor garantito dai tassi di deposito, ovvero l’impossibilità di acquistare un asset con rendimento inferiore a -0,20%. Combinando questa situazione con il fatto che già oggi gli acquisti pianificati eccedono le emissioni nette, oltretutto in un ambiente economico di austerità la cui pressione pesa sulle politiche fiscali, appare molto difficile poter dire con certezza che la Bce possa portare a termine il suo obiettivo statutario per il Qe, soprattutto se il programma – come nel caso giapponese – avesse bisogno di un’espansione ad altre asset classes, stante il fallimento nel far rialzare le aspettative inflazionistiche. 

Stando a calcoli, infatti, alla fine di settembre 2016, gli acquisti obbligazionari avranno superato di 840 miliardi l’offerta netta sul mercato eligibile: inoltre, la Fed ha dato vita agli acquisti in un periodo di stimolo fiscale e ampi deficit di budget, mentre in Europa si continuano a perseguire politiche di contrazione fiscale. Anche in questo caso, non dite che non vi avevo messo in guardia con largo anticipo. Ma attenti, perché le criticità a livello globale sono tante e spesso nascoste molto bene nella narrativa e nella pubblicistica della ripresa, trasformata in vangelo laico dal crollo del pezzo del petrolio, una panacea di tutti i mali soltanto per chi beneficia di un mondo basato su dinamiche come quelle di cui vi ho appena parlato. 

La scorsa settimana il Center for Global Development ha pubblicato un report nel quale identificava i mercati emergenti come i più vulnerabili a shock esterni, come un aumento dei tassi da parte della Fed o sommovimenti geopolitici, ad esempio un attacco in grande stile della Russia in Ucraina o una crisi su vasta scala in Medio Oriente. Ora, se date un’occhiata agli ultimi due grafici, vedrete come i multipli di utile per azione, gli spread e i trading valutari dei Paesi emergenti presentino uno “sconto” rispetto ai loro pari del mercati sviluppati, di fatto creando un occasione di investimento, un value play, per chi vuole entrare in un mercato di nicchia rispetto all’ultra-acquistato azionario e obbligazionario occidentale. 

 

 

 

 

 

Ma nonostante queste valutazioni, a JP Morgan sono convinti che esista una sfida contrarian a questi numeri, basata sia sulla leva, che sul difficile ambiente economico, che sulle scelte future della Fed. Se infatti le equities dei mercati emergenti stanno tradando a multipli molto più bassi di quelle dei mercati sviluppati, i loro bonds esteri offrono yield più alti dei loro concorrenti occidentali e le loro valute sono ancora sottovalutate del 20-30% sul dollaro, non ci sono pranzi gratis nei mercati emergenti, visto che i fondamentali macro stanno deteriorando a ritmi sempre più rapidi. 

A spaventare sono il livello in aumento della leva e il finanziamento estero, la debolezza strutturale della crescita e la fine di fatto dei tempi di denaro a costo zero della Fed: ognuno di questi fattori rappresenta un problema, combinati diventano un problema davvero serio. Certo, potranno esserci episodi di rimbalzi del gatto morto negli assets dei mercati emergenti e qualcuno potrà fare nel breve bei soldoni, ma fino a quando almeno due di quelle tre variabili non saranno sparite, nel medio termine i mercati emergenti potrebbero offrire soltanto sotto-performance. La crescita è un fattore molto serio, visto che da un iniziale rimbalzo post-crisi dell’8% nel 2010, quest’anno il tasso scenderà sotto il 4%, con un calo marcato della produttività e il tasso di crescita della produttività lavorativa sceso praticamente a zero dal +3-4% dei periodo pre-crisi. 

Inoltre, dopo un primo periodo di deleverage da parte di cittadini, istituzioni e banche, i mercati emergenti e le loro economie stanno ricaricandosi di debito, con il credito bancario che già oggi sopravanza il Pil del 25% in più rispetto al periodo precedente alla crisi finanziaria. Inoltre, dopo oltre 6 anni di tassi a zero negli Usa, gli investitori più attenti cominciano a chiedersi cosa succederà quando la Fed scuoterà l’albero del denaro innalzando i tassi e, guarda caso, in cima alle lista di chi rischia di pagare per primo e a prezzo pieno ci sono proprio Paesi dei mercati emergenti, con in testa Brasile, India, Bulgaria, Estonia, Lituania, Lettonia, Polonia e Romania, come ci mostra la tabella a fondo pagina. Insomma, fatti salvi i due giganti dei Brics – capaci da soli di inviare shock sistemici – tutti Paesi dell’Est europeo con forti legami diretti, su credito, debito e valute, con l’Ue e la Svizzera. 

E il Giappone, la fabbrica del grande Frankenstein della pianificazione centrale? Guardate il secondo grafico, ci mostra il crollo della liquidità e degli acquisti, un qualcosa che si sostanzia immediatamente nell’ampliarsi della dinamica denaro/lettera, nella price discovery e nella volatilità. In un contesto simile, un balzo dei rendimenti potrebbe far deteriorare molto in fretta la situazione per la Bank of Japan, innescare una crisi fiscale e soprattutto far collassare su se stesso l’intero schema Ponzi posto in essere. 

Questo grafico deve far paura, perché parlandoci del volume di trading su titoli di Stato nipponici ci dice chiaramente che quello della liquidità è diventato un problema serio, con le banche giapponesi che hanno rallentato e di molto la loro attività di acquisto. Fino all’aprile 2013, il trading mensile medio era di circa 27 triliardi di yen, salvo scendere entro fine anno a 11,8 triliardi e risalire per l’intero anno 2014 a una media mensile di 24,7 triliardi, fino all’espansione del piano di Qe dello scorso ottobre. Poi, da novembre, il tonfo a una media mensile di 7,5 triliardi, sintomo di un calo a picco del volume di trading e quindi di un aumento netto della volatilità. 

 

 

Insomma, l’effetto collaterale degli acquisti monstre della BoJ si è finalmente sostanziato sul mercato, con le banche che potrebbero essere spinte all’investimento in prestiti o assets a rischio ma che, contemporaneamente, non possono abbandonare del tutto il mercato obbligazionario sovrano. Questione gestibile? Sempre meno, visto che ieri il capo della BoJ, Kuroda, ha chiaramente detto che «il Qe non continuerà senza uno scopo preciso». Aria di “taper” in salsa di soia? Se così fosse, preparatevi allo schianto. Lo stesso che sempre ieri hanno vissuto proprio in Giappone tutti i dati macro relativi al primo trimestre di quest’anno: il Large Manufacturing Index ai minimi da nove mesi, il Large Manufacturing Outlook sotto le stime di molto così come il Large Service Outlook, lo Small Manufacturing Index e, soprattutto, il mitico Tankan della BoJ, ovvero l’outlook per il capex (gli investimenti) delle grandi industrie, sceso a -1,2% dal precedente +8,7%, il minimo da due anni come ci mostra il grafico a fondo pagina. 

Insomma, due anni di acquisti selvaggi da parte della Banca centrale ed ecco com’è ridotto il Giappone, Paese nel quale i cittadini stanno talmente perdendo fiducia nei loro governanti da aver nascosto nei materassi – letteralmente – qualcosa come 300 miliardi di dollari in contanti, denaro che resterà dov’è fino a quando un’eventuale crisi di proporzioni epica non darà il via a una fuga di capitali senza precedenti. Per Yasunori Ueno, capo economicts alla Mizuho Securities, «il denaro è ormai nascosto da un sacco di tempo ed è molto difficile riuscire a capire cosa potrebbe far decidere la gente a spendere il contante», mentre il ministro delle Finanze, Taro Aso, definisce la situazione «ridicola, visto che la gente dovrebbe depositare i soldi in banca, di modo che gli istituti possano garantire credito alle aziende». Ma con i depositi a 10 anni che non rendono più dello 0,10%, i giapponesi si sono fatti furbi e hanno prelevato il contante, custodendolo al sicuro a casa o in cassette di sicurezza: «È come un iceberg, la situazione resterà così com’è, immobile e congelata nel tempo», sentenzia il capo economista di Dai-ichi Life, Hideo Kumano. Insomma, proprio un bel quadretto. 

Direte voi, quando c’è da attendersi la correzione? Lo sapessi ne sarei ben felice, una cosa però posso dirvela: più che nel 2015 mi sembra di stare nel 1987, esattamente il 16 ottobre di quell’anno. Perché? Perché quel giorno la trasmissione statunitense dedicata ai mercati “Wall Street Week” condotta dal mitico Louis Rukeiser trattava il tema dell’imminente mercato ribassista e furono queste le frasi che emersero nel corso del dibattito: «Non ci sono veri acquirenti e venditori, questi sono computer che buttano giù il mercato in tempo estremamente veloce… Un crash sta arrivando… Una correzione che porterà un taglio dei tassi, il quale ci assicurerà che il mercato rialzista non è finito». Non vi pare che si adatti bene ai giorni nostri? Una bella correzione, un bel crash che instilli terrore sui mercati globali e la Fed, invece che alzare i tassi, potrebbe tornare a stampare ancora un po’, per la gioia dell’1% di cittadini che sta macinando miliardi. 

Era il 16 ottobre 1987, il venerdì precedente al crollo di Wall Street nel Black Monday. Ecco, potrebbe accadere così anche adesso: o primo o dopo un weekend, con le Borse chiuse a fare da detonatore. Esattamente come accadde con Lehman Brothers.

 


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