Facciamo un breve riassunto di una settimana qualsiasi dell’economia globale. L’ultima settimana di marzo si è chiusa con la cessione di World Duty Free, controllata dal gruppo Benetton, a una società, la Dufry, di nazionalità svizzera ma controllata da un management messicano. Per finanziare l’operazione, 1,3 miliardi, che farà di Dufry il leader mondiale dei negozi aeroportuali, la società aprirà il capitale a un fondo sovrano del Golfo, il Qatar Investment Fund, e a due colossi controllati da Singapore, il Gic, già alleato dei Benetton in Sintonia, e Temasek, lo scrigno delle partecipazioni bancarie e industriali della città-Stato.
Facciamo un piccolo passo indietro, all’inizio della settimana. A Milano, un comunicato emesso da Camfin holding poco dopo l’alba, confermava la notizia già comparsa sul sito di Chemical National China, 8 mila chilometri più ad est: la società cinese, a maggioranza pubblica, aveva rilevato il 26,7% di Pirelli controllato da una cordata capitanata da Marco Tronchetti Provera. L’operazione prevede l’uscita dalla Borsa italiana per render possibile una profonda ristrutturazione del gruppo. Ma, assicura Ren Jianxin, è nostra intenzione far ritorno nella Borsa italiana nel 2020 o forse prima. Allora, la Bicocca sarà a maggioranza cinese, ma potrebbe contare ancora sull’alleanza con la russa Rosneft.
Quasi in contemporanea, a Wall Street esplodeva l’ennesimo affare del secolo. 3G Capital, il colosso che controlla la catena Usa Burger King e quella canadese Tim Horton più la regina del ketchup Heinz, ha preso accordi per acquistare Kraft e così diventare la quinta potenza al mondo nell’alimentare. All’operazione partecipa anche Warren Buffett, che ha ormai scelto 3G come il partner d’affari più gradito. In questo caso la società acquirente è brasiliana, anche se il manager di riferimento è Alex Behring, che sta a New York. Tra i soci il più noto, l’ex campione del tennis Jorge Lemann, ha rappresentato a suo tempo il Brasile in Coppa Davis. Ma da tempo, dopo esser sfuggito a un sequestro di persona, ha scelto la Svizzera. Per quanto riguarda la nazionalità del nuovo colosso, è in corso una battaglia tra la Casa Bianca, che intende proibire gli spostamenti di sede per motivi fiscali, e 3 G che vuol approfittare di Tim Horton per far emigrare Burger King a nord delle cascate del Niagara.
Le bandiere nazionali si incrociano e si confondono sotto i cieli dell’economia globale. E nessuno s’impressiona se una società indiana Mahindra & Mahindra alzerà la sua bandiera sulla Pininfarina. Semmai c’è da lamentarsi che il deal avvenga in notevole ritardo rispetto all’ingresso di un altro tycoon indiano, Ratan Tata, nell’inglese Jaguar, riportata dal gruppo di Mumbai alle glorie del passato assieme alla Land Rover.
Non è un fenomeno inedito, ma colpisce la rapidità con cui investe un po’ tutti i settori, anche quelli che, per pigrizia od ottusità, si insiste a voler giudicare “strategici”, assi portanti di un presunto sistema Paese che, nel mondo d’oggi, si difende più con l’efficienza dei servizi, la qualità della forza lavoro e gli anticorpi contro il malaffare e la violenza piuttosto che con il controllo dei pacchetti azionari.
Ma la vera novità sta nel diverso ruolo dell’Asia. Non è più terra di conquista o di investimenti per attività produttive destinate a sfornare prodotti per l’export. Non è solo l’area più promettente per l’espansione dei consumi e dei servizi tradizionali (vedi il turismo o consumi alimentari più raffinati). Semmai la Cina si avvia ad assumere un ruolo da protagonista nell’integrazione dei commerci mondiali. Con successo crescente. Basti dire che, alla vigilia della scadenza del termine per aderire alla nuova banca di investimento asiatica al progetto ha aderito anche la Danimarca.
Ormai la lista dei partner si estende dal Vietnam al Regno Unito, coinvolgendo il subcontinente indiano e l’Asia centrale. Il presidente Ji Xingping ha esposto domenica alla platea degli ospiti riuniti nella Cina meridionale il suo obiettivo: tra dieci anni, nel 2025, l’interscambio commerciale lungo la Via della Seta, quella percorsa da Marco Polo, dovrà raggiungere la cifra di 2.500 miliardi di dollari. Tanto per fare un paragone, oggi l’import/export tra la Cina e l’Unione europea ammonta a 428 miliardi. Si tratta, insomma, di moltiplicare per sei i rapporti attuali, cosa che può diventare possibile solo con un forte incremento qualitativo dell’interscambio: più collegamenti virtuali, più valori immateriali e intangibili nei prodotti. Ma anche con un forte aumento delle garanzie a tutela della proprietà intellettuale, della governance delle imprese, dei diritti degli individui. Solo un sogno? Oppure solo propaganda da parte di un despota assoluto?
La storia, si sa, non procede mai per linee rette. Ma, come scrive Martin Wolf sul Financial Times, le accuse americane sull’opacità delle intenzioni di Pechino in occasione del varo della Banca asiatica di investimenti e di infrastrutture hanno un limite di fondo: come si fa contestare la Cina per aver deciso, così come l’Occidente ha chiesto per anni, di reinvestire il suo surplus in operazioni di sviluppo e di crescita condivise? Senza dimenticare che si avvicina l’appuntamento diplomatico più importante dell’anno, per le sue ricadute economiche: la visita di Ji Xingping a Narendra Modi, il leader indiano che mira a scavalcare, nella classifica della crescita del Pil, il concorrente cinese.
L’impressione è che i giganti dell’Asia siano in movimento per occupare gli spazi di crescita che l’Ovest, nonostante le continue iniezioni di liquidità, stenta a coprire. La globalizzazione, in questa cornice, non è più rappresentata da un flusso monodirezionale dai Paesi avanzate alle aree emergenti. Ma una competizione su più piani, cui l’Italia può partecipare in vari modi, ma con una logica che è la stessa di sempre: importare materie prime e capitali, riesportare prodotti finiti.
Sembra un sogno. Ma i sogni talvolta diventano realtà, come ha confermato la sfilata dei potenti, da Modi a Bill Clinton, domenica alle esequie di Lee Kuan Yew, il compianto padre della moderna Singapore, capace di trasformare, senza violenza, una modesta e povera città asiatica nel posto più ricco e meglio governato del pianeta. Fu lui a indicare all’Asia la strada per uscire dalla guerra del Vietnam, così come il maestro di Deng Xiao Ping, colui che ha traghettato la Cina dal sottosviluppo alla leadership economica mondiale.