Dunque, ora che il Re della ripresa Usa è nudo, cosa dobbiamo aspettarci? Soltanto a metà della scorsa settimana, il capo economista di Goldman Sachs, Jan Hatzius, aveva pubblicato un report dall’eloquente titolo “Hiking rates in the name of financial stability”, di fatto un documento che spiegava le ragioni macro per le quali era non solo ormai inderogabile ma positivo e necessario che la Fed si decidesse finalmente ad alzare i tassi di interesse almeno di un quarto di punto, atto che sta terrorizzando il mondo da oltre sei mesi a questa parte. Insomma, due giorni prima della pubblicazione dello sconfortante dato sull’occupazione nel settore non agricolo di venerdì scorso, il motore immobile di Wall Street sentenziava che era ora di tornare al minimo sindacale di normalità per la politica monetaria. E venerdì sera cos’è accaduto? Miracolo, Hatzius è stato folgorato sulla via di Washington è si è rimangiato tutto, scrivendo a chiare lettere che stante i dati poco confortanti sul mercato del lavoro «l’economia Usa potrebbe non essere ancora pronta per un rialzo dei tassi», nonostante quasi una decade a ridosso dello zero.
Non stupitevi, Hatzius è lo stesso che un anno fa parlava di crescita Usa oltre il consenso generale nel 2014, prevedendo un +2,9% schiantatosi poi contro la realtà (anch’essa drogata) del 2,4%. Addirittura, tre mesi fa Goldman Sachs prevedeva un +3,0% di Pil nel primo trimestre di quest’anno, un dato che da allora la banca d’affari ha più volte rivisto al ribasso, arrivando all’attuale 1,1%, senza scomodare la previsione di inizio anno di un rendimento del decennale Usa al 2,6% al 31 marzo, contro la realtà di un +1,84%. Insomma, diciamo che la carriera di chiromante è esclusa per molti analisti di Goldman. Ma veniamo al documento di venerdì sera, nel quale Hatzius scrive che «il dato sull’occupazione di oggi è stato deludente, visto che l’aumento sia salariale che occupazionale di marzo è stato minore delle attese e frutto di revisioni al ribasso dei mesi precedenti, questo nonostante il cattivo tempo abbia pesato sul dato», dimenticando che giovedì scorso è stata la stessa Goldman a dimostrare, grafici alla mano, che quest’anno ha nevicato il 30% in meno dello scorso.
Ancora, «le condizioni inflazionistiche sono un ostacolo molto grande. Date le ultime notizie, incluso un rallentamento dell’inflazione annualizzata all’1,4%, la crescita salariale nominale al 2% e il calo di alcuni indicatori di aspettative inflazionistiche di lungo tempo, essere ragionevolmente fiduciosi per un’inflazione che ritorni nel target del 2% è qualcosa di arduo». Eh già, ma cos’ha fatto finalmente aprire gli occhi a Goldman? Tre cose, sostanzialmente. Primo, l’impatto dei bassi pezzi petroliferi che ora comincia davvero a fare male, il fatto che gli Usa stiano importando deflazione sia dal Giappone che dall’Ue e, soprattutto, l’impossibilità ontologica di negare ancora l’evidenza di una ripresa economica farsesca, a partire dal dato dell’occupazione, nonostante il tasso dei senza lavoro resti negli Usa al 5,5%.
Guardate il primo grafico a fondo pagina, dimostra chiaramente come il miracolo dei baristi e dei camerieri di cui vi ho parlato la scorsa settimana, ovvero le categorie che hanno visto i massimi incrementi occupazionali a fronte di paghe basse e pessime condizioni contrattuali, sia già finito, visto che l’ultimo dato al loro riguardo parla del più basso incremento mensile dal giugno del 2012, questo nonostante il Wall Street Journal abbia più volte glorificato questo bacino di nuovi lavori, quasi ci fosse da essere fieri di un’economia, la prima al mondo, che si basa su Martini cocktail preparati e portati al tavolo. Ma non basta, cari lettori. Guardate gli altri due grafici, i quali ci mostrano chiaramente come l’America, a dispetto del libro e del film, sia invece un Paese per vecchi.
Stando agli ultimi dati, infatti, i cittadini sopra i 55 anni hanno visto aumentare i posti di lavoro a marzo di 329mila unità rispetto a febbraio, mentre tutti gli altri gruppi di età hanno patito soltanto perdite di posti di lavoro! Tanto che dall’inizio della grande depressione post-Lehman, soltanto la categoria over 55 ha visto aumenti, mentre quelle al di sotto dei 55 anni sono ancora 1,2 milioni di unità lavorative sotto il livello cui erano nel dicembre del 2007! E a cosa dobbiamo questa dinamica? Ma ovviamente alle politiche distorsive della Fed, le quali con il loro mis-matching di qualsiasi elemento macro hanno portato a un ribaltamento delle dinamiche della forza lavoro (l’ultimo grafico in prima pagina) e a questo sviluppo. Chi infatti ha più di 55 anni e si preparava ad andare in pensione ha visto i frutti del proprio lavoro schiantati dalla politica di tassi a zero della Banca centrale, con i propri risparmi che generavano ormai profitti nulli, mentre gli americani più giovani – vista la dinamica – sceglievano di essere un po’ più “choosy” e restavano più a lungo al college, abbassando il numero della forza lavoro attiva e facendo aumentare a dismisura la bolla federale dei prestiti scolastici, al suo record assoluto.
Insomma, la ricetta per il disastro, visto che i lavoratori avanti con gli anni non hanno alcuna leva per poter chiedere aumenti salariali – cara grazia che trovano un lavoro – mentre i giovani Usa, pronti a entrare nel mondo del lavoro con la loro super-preparazione, si trovano a dover affrontare dinamiche salariali inflazionate e soprattutto un carico di debito iniziale contratto durante l’università che devono scontare da subito.
Bene, alla luce di questo, cosa ha avuto il coraggio di concludere il buon Hatzius nel suo report di venerdì sera, senza alcuna vergogna? «L’analisi suggerisce che è difficile essere ragionevolmente ottimisti verso l’outlook inflazionistico date le attuali condizioni economiche, a meno che molti driver dell’inflazione non comincino a salire contemporaneamente. Noi stessi non abbiamo fiducia nell’outlook inflazionistico e pensiamo che la politica giusta sarebbe quella di mantenere, almeno per il momento, l’aumento dei tassi congelato». Evvai, anche Goldman è capitolata e dice chiaramente alla Fed che deve stare ferma con i tassi di interesse almeno fino all’autunno inoltrato, se non addirittura l’inverno. Anche perché certe dinamiche, sottotraccia, stanno continuamente peggiorando e i rischi di un crash inaspettato – almeno per il parco buoi – aumentano con il passare dei giorni.
La prima delle criticità è legata al cosiddetto comparto obbligazionario ad alto rendimento di cui abbiamo diffusamente parlato in passato, un asset class che durante i cicli di Qe ha vissuto un aumento delle emissioni del 50% rispetto ai livelli normali, visto che gli emittenti – aziende con basso rating di credito e alto indebitamento – hanno sfruttato i costi di finanziamento bassissimi, mentre gli investitori sbavavano alla ricerca di rendimento a tutti i costi in un ambiente di yields praticamente compressi a zero dalla Fed, incuranti dei rischi connessi a questa strategia. Ultimamente, come ci mostrano i due grafici a fondo pagina, questa dinamica si è esacerbata ulteriormente, con i produttori di petrolio che emettono come non ci fosse un domani alla ricerca di finanziamento a tutti i costi pur di restare sul mercato, anche a fronte del taglio delle linee di credito da parte delle banche anche del 30-40%: a oggi, i bond high-yield legati al comparto energetico contano per un livello sproporzionato dell’intero settore, facendo aumentare i rischi di default a catena e margin calls.
Se per caso la Fed alzasse i tassi, con i prezzi del petrolio che paiono destinati a restare bassi ancora a lungo e la scarsa liquidità sul mercato secondario che porterà con sé l’aumento della volatilità, ecco che il possibile scenario per un meltdown del settore sarebbe decisamente pronto a palesarsi, stante le emissioni record per 91 miliardi di dollari nel solo primo trimestre di quest’anno, il numero sempre maggiore di bond a rischio legati al mercato dell’energia e il sempre maggiore tasso di default da parte degli emittenti a rischio che sono ormai i padroni del mercato, in un contesto di Vix in aumento costante.
Ma pensate che la questione riguardi soltanto l’America? Vi sbagliate, la distorsione delle dinamiche di mercato da parte delle Banche centrali è globale. Il 30 marzo scorso il ministro del Lavoro giapponese ha infatti annunciato un ritardo nella pubblicazione dei dati della crescita salariale, attesa per il giorno successivo e immediatamente nella mia testa è comparso un unico pensiero: non sanno come truccare i dati, quindi prendono tempo.
Il mio solito vizio di pensar male? Forse ma guardate il grafico a fondo pagina: il ministero, esattamente come negli Usa, ha dovuto – per evitare di essere sommerso dal ridicolo e scatenare una fuga di investitori – operare una drastica revisione al ribasso di quei dati, la quale porta con sé un’unica realtà. Ovvero, per tutto il 2014 il Giappone non ha mai vissuto una crescita mensile dei salari. Nemmeno una, zero! Peccato che nelle stime precedenti Tokyo parlasse di sei mesi di crescita positiva a livello annualizzato dei salari, di fatto la prova provata che l’Abenomics stesse funzionando e che la monetizzazione del 100% del nuovo debito emesso e la manipolazione dei mercati portasse con sé miracoli economici e non l’attuale devastazione.
Balle, come vi dico ormai da mesi e mesi! Addirittura gli stipendi sono calati dello 0,2% su basi nominali, restando negativi fino a dicembre del 2014! E mentre attendiamo con ansia la quasi certa revisione del dato positivo del gennaio di quest’anno – state sicuri che non ci vorrà molto perché questo finisca ufficialmente in territorio negativo, con però una revisione al rialzo per i mesi a seguire – gli ultimi venti mesi hanno rappresentato il periodo più lungo senza un singolo aumento salariale reale mensile nella storia del Giappone! Miracoli dell’Abenomics e delle Banche centrali. Ma ora sta per palesarsi il conto da pagare.
(1 – segue)