Ci siamo, la sciarada pare che volga finalmente al termine. Lo scorso ottobre, fu l’ineffabile James B. Bullard, capo della Fed di St. Louis, a rinvigorire i mercati Usa dopo un calo del 10% pronunciando la sola parolina che volessero sentire: Qe4. Oggi, stranamente con tutti gli indici frazionalmente distanti dai massimi assoluti ma con il timore del rialzo dei tassi che aleggia formalmente nelle sale trading, ecco che il presidente della Fed di Minneapolis, Narayana Kocherlakota, si è sentito in dovere di proferire queste parole: «C’è inoltre un argomento teorico da prendere in considerazione riguardo un acquisto di assets oggi, in caso l’economia si bloccasse». Boom! Direte voi, ieri Wall Street ha sfondato i record: no, ha chiuso in negativo. Certo, il calo ulteriore del petrolio dopo due giorni di rialzi artificiali dovuti agli algoritmi impazziti ha pesato, ma c’è dell’altro, ovvero la necessità di qualcosa di più che meri segnali. Ma vedrete, il sasso gettato da Kocherlakota nello stagno dell’economia Usa non tarderà a innescare almeno un effetto placebo, tanto più che è stato tirato alla vigilia della pubblicazione delle minute dell’ultimo meeting della Fed, più segnale di così!
Per il numero uno della Fed di Minneapolis, addirittura, la Banca centrale Usa dovrebbe aspettare la metà del 2016 per alzare i tassi, per poi salire gradualmente e raggiungere il 2% solo alla fine del 2017: musica per le orecchie di Wall Street. Per Kocherlakota «il solo parlare di aumento dei tassi rappresenta una politica di contrazione, un qualcosa che può sostanziarsi in un freno della performance economica sia in termini di crescita che di occupazione». D’altronde, è solo dal 2008 che abbiamo i tassi zero negli Usa, un po’ di pazienza! «Continuo a pensare che sarebbe un errore alzare l’obiettivo di range dei tassi nel 2015, occorre farlo più tardi e con maggiore lentezza di quanto avvenuto nel 2004-2006», ha concluso Kocherlakota.
Ma perché proprio ora questa intemerata? Semplice, per ciò di cui parliamo da giorni: il Qe ha permesso un eccesso di emissioni obbligazionarie a rischio e un rialzo dei tassi – o anche solo una salita degli spread come evento anticipatore di questo – potrebbe schiantare il mercato, ancora una volta esposto alla leva su livelli non gestibili con politiche ordinarie. E la cosa va avanti da parecchio, visto che lo scorso anno la punta dell’iceberg fu rappresentata da Ibm, multinazionale impegnata come molte altre a emettere debito come non si fosse un domani per finanziare non investimenti ma buybacks azionari (altrimenti come si tiene alta la valutazione del titolo, garantendo i bonus ai manager?), ma che ci mostrò plasticamente come la politica della Fed avesse messo a rischio il concetto stesso di investment grade come rating per l’obbligazionario corporate Usa.
I primi due grafici a fondo pagina, ci mostrano infatti quale fosse il livello di leverage di Ibm sul proprio debito e il fatto che, come conseguenza, i buybacks cominciarono a rallentare e il titolo a perdere seccamente terreno. Poi fu la volta di Viacom, anch’essa schiacciata dal debito e rallentata nella prosecuzione della propria campagna di riacquisto titoli: da rating Baa2/BBB, arrivò addirittura alle soglie della valutazione “junk”. Detto fatto, ecco che lunedì pomeriggio Viacom ha reso noto il seguente comunicato: «Viacom sospenderà temporaneamente il suo programma di buybacks da 20 miliardi di euro per restare entro la ratio obiettivo di leverage».
Bene, guardate gli altri due grafici: ci dicono come IBM e Viacom non siano affatto sole, visto che il livello medio di esposizione alla leva per aziende IG (Investmente Grade) e per le cosiddette “fallen angels”, ovvero “gli angeli caduti”, aziende che sono state in passato IG, non è mai stato così alto! E Citigroup, nella sua analisi, è stata impietosa: «Se il leverage sale oggi perché sta finanziando la crescita di domani allora non è una cosa cattiva. Sfortunatamente, non è quanto sta accadendo».
In parole povere, Ibm, Viacom e compagnia bella non stanno emettendo debito a ritmi record per finanziare il capex, bensì per garantire liquidità ad attività più gradite agli azionisti, leggi buybacks e dividendi. Ora, la tabella a fondo pagina ci mostra quali altre grandi aziende Usa, una volta che arriverà maggio e si tornerà alla stagione dei buybacks, dovranno seguire le orme di Ibm e Viacom e smettere di ricomprare proprie azioni per il semplice fatto di dover preservare il proprio rating IG in futuro: che dite, non paiono pesci piccoli, vero?
Si tratta infatti delle aziende più grandi quotate allo S&P’s 500 che negli ultimi dodici mesi hanno ricomprato propri titoli per 2 miliardi di dollari o più e la cui ratio debito/Ebitda oggi sta pericolosamente prendendo una china da “fallen angel”! Capito, tra i mille altri motivi, perché Kocherlakota ha sentito il bisogno di parlare en plein air di possibile Qe4?
Ma, come vi dico da giorni, non è solo l’America ha proseguire lungo una rotta suicida. Prendete l’Ue, ad esempio. Martedì la Bce ha reso noti i risultati del primo mese di Qe, il quale ha registrato acquisti obbligazionari per 47,7 miliardi di euro con la Germania principale “beneficiaria” con un controvalore in bonds di 11,1 miliardi di euro, ovvero il 23,4% degli acquisti totali mensili. La Bce ha poi reso nota anche la durata media della carta acquistata, con la Spagna al massimo del bucket in virtù di maturazioni a 11,7 anni, la Germania a metà con 8,12 anni e la Slovenia al minimo come 6,3 anni. Tutto largamente atteso dai mercati, i quali infatti non hanno fatto una piega, ma qualcosa in contemporanea con la pubblicazione del dato sembra aver fatto aggrottare un po’ le ciglia al buon Mario Draghi. Ovvero, il dato sul budget tedesco, il quale ha visto il settore pubblico postare un surplus per il 2014 di 6,4 miliardi di euro, grazie a forti introiti fiscali dovuti all’economia in ripresa, contro il deficit da 7,2 miliardi di euro del 2013.
In parole povere, non solo Berlino ha un bilancio in pareggio, ma per la prima volta da mezzo secolo, lo scorso anno ha registrato un surplus. E cosa significa questo? Semplice, che la Germania non ha bisogno di emettere debito e visto che la Bce deve monetizzare 11 miliardi di quel debito al mese, questo significa che – come vi dico da ben prima che il Qe iniziasse – le emissioni nette tedesche sono già oggi solidamente negative, come ci mostra il grafico a fondo pagina che mostra la discrepanza tra domanda/offerta di debito tedesco rispetto al programma di acquisto della Bce comparato con quello della Bank of Japan.
Insomma, come vi ho già detto, o la Bce comincia a comprare anche sotto il livello di rendimento del tasso di deposito, ovvero -0,20%, scassando il suo bilancio, o dovrà chiudere in anticipo il suo programma di acquisto, stante la mancanza di assets eligibili. C’è quindi da sperare nel potenziale rally innescato dalle parole di Kocherlakota, anche perché proprio ieri dalla Germania è arrivata un’altra notizia: ovvero, il peggior calo degli ordinativi industriali da giugno (-1,3% annualizzato), il secondo mese di calo consecutivo, fattispecie che non accadeva dal maggio 2013, nonostante il miracoloso dato della fiducia degli industriali tedeschi sia in aumento da cinque mesi a questa parte.
E come ha reagito il Dax, l’indice di Francoforte, a questa notizia? Da pazzi, come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, essendo un mondo di pazzi quello in cui viviamo, visto che in contemporanea la Spagna andava in negativo fino alla scadenza obbligazionaria a 6 mesi e addirittura la Svizzera trada uno yield negativo sul decennale, al -0,055%! Ma attenzione, perché in Germania qualcosa sembra bollire in pentola, visto che Handelsblatt ha dato mandato a un istituto di ricerca di creare un nuovo indice di misurazione dell’inflazione, il quale viene guardato con molta attenzione dalla Bundesbank e che ha fornito nella sua prima rilevazione il risultato che ci mostra il secondo grafico. Ovvero, i prezzi al consumo in Germania sono saliti del 2,4% nel 2010, ma da allora hanno cominciato un calo che all’inizio di quest’anno si è sostanziato in un approdo in territorio negativo, ma questo va comparato con un aumento dei prezzi degli assets del 4,4% solo per il primo trimestre di quest’anno.
E a cosa è dovuta questa sconnessione, a detta dell’indice? Alla politica di allentamento monetario della Bce! Insomma, questo nuovo indice – i cui risultati verranno ora pubblicati ogni trimestre – dimostra di fatto come i prezzi, nonostante il dato Cpi stagnante, siano in realtà saliti e molto in Germania, un qualcosa che alla Bundesbank fa subito alzare le antenne per il rischio di una deriva weimariana di iper-inflazione. Quindi, se i prezzi al consumo restano al palo, la Bce sta facendo salire quelli di assets, ponendo a rischio la ripresa, già compromessa nel dato degli ordinativi industriali: il buon Jens Weidmann non aspettava altro.
Ma non basta, perché sempre ieri l’indice giapponese Nikkei ha chiuso a 19.789,81 punti (+0,76%), dopo che il board della Banca centrale nipponica ha reso noto, al termine di due giorni di meeting, che manterrà invariata la politica monetaria, ovvero per raggiungere il miraggio dell’inflazione del 2% a medio termine continuerà ad acquistare asset annuali per 80.000 miliardi di yen (665 miliardi di dollari). E c’è di più, perché restando in Asia, sempre ieri i listini cinesi hanno festeggiato l’annuncio della Borsa di Shanghai, la quale permetterà ai singoli investitori di aprire trading account multipli con broker diversi e ai fondi comuni di poter accedere al trading-link appena lanciato che unisce Shanghai a Hong Kong, finora utilizzato solo per i titoli azionari. Insomma, sempre più investitori con la terza media o meno – come vi ho dimostrato nell’articolo di ieri – potranno lanciarsi nel casinò della mega-bolla equities del Dragone, evviva!
Già, perché ieri lo Shanghai Composite ha sorpassato per un breve periodo la soglia dei 4mila punti, estendendo ulteriormente il più grande rally azionario in atto nell’attesa da parte della Banca del Popolo di ulteriori manovre di stimolo per aiutare l’economia. Certo, lasciamo perdere il fatto che questo sia sostenuto da un margin debt, ovvero soldi presi in prestito dallo shadow banking per comprare azioni, superiore al triliardo di yuan (quadruplicato in meno di un anno) e con l’80% dei partecipanti al mercato che sono investitori individuali, sono particolari insignificanti. E poi, cosa ci importa se sempre lo Shanghai Composite è valutato 15,3 volte rispetto agli utili stimati per i prossimi dodici mesi, comparata a una media a cinque anni di 10,2, stando a dati di Bloomberg e che il settore tecnologico sia tradando a una media di 220 volte i profitti riportati, il più costo tra gli altri sotto-indici al mondo, sono bazzecole!
E scordiamoci anche che quando la China Securities Regulatory Commission sospese tre dei più grandi gruppi di brokeraggio, l’indice di Shanghai si schiantò del 7,7% il 19 gennaio, salvo rimbalzare del 28% dopo che la Banca centrale ha benedetto l’afflusso di fondi verso le equities: siamo nella norma, anche Pechino si è aggiunta al grande casinò globale dei mercati manipolati dalle Banche centrali. E soprassediamo anche al fatto che da quando Bloomberg traccia il dato, ovvero dal 1990, il mercato azionario cinese ha conosciuto più di 50 mercati rialzisti e ribassisti, ovvero scostamenti almeno del 20% dal recente picco: a oggi siamo a un guadagno del 100% comparato contro la media del 122% degli altri rally, quindi c’è ancora un po’ di margine per il parco buoi prima di venire tosato e per gli spazzaborse per fare denaro facile.
Ogni 7-8 anni in Cina c’è un mercato rialzista che fa ricchi in molti e in fretta, salvo poi vedere esplodere la bolla e registrare fughe di massa dal mercato, quindi liquidità a picco e volatilità in aumento: sarà così anche questa volta, con lo shadow banking che gonfia ancora di più la bolla del credito, la crisi del mercato immobiliare già in atto e la crescita in rallentamento?
Ballate pure, ma come vi ho già detto, fatelo vicino alla porta di uscita. E correte in fretta.