Dopo due giorni di ribassi, ieri il prezzo del petrolio è tornato a salire sulla scorta del calo delle riserve Usa, ma le valutazioni rimangono molto basse, con il Wti in area 46 dollari al barile e il Brent che solo ieri è tornato frazionalmente sopra quota psicologica di 50 dollari. Siamo ai minimi da 6 mesi e parecchi indicatori ci dicono che le settimane che verranno potrebbero portare ulteriori cali potenziali. I primi tre grafici a fondo pagina ci spiegano quali sono le criticità principali.
Primo, la fine dell’estate e l’arrivo dell’autunno tipicamente portano a una riduzione della produzione in settembre e ottobre, dopo i record che si concentrano in luglio nelle raffinerie Usa. Per Michael Wittner, capo delle ricerche sul petrolio di Societe Generale a New York, «abbiamo ancora una sovra-offerta a livello globale. Stiamo avvicinandoci all’autunno, quando la domanda di greggio e prodotti derivati solitamente tocca i minimi stagionali e quindi è difficile vedere da dove possa arrivare un elemento rialzista per il prezzo». Io direi dalla Siria, visto che Obama ha dato il via libera all’uso della forza aerea in difesa dei nuovi ribelli filo-Usa e Mosca ha immediatamente dichiarato di essere pronta a mandare truppe al fianco delle milizie di Assad, ma sono il solito complottista. Come poi ci mostrano gli altri due grafici, la domanda di carburanti cala dopo l’estate, visto che molta forza lavoro part-time finisce il proprio periodo di occupazione e le famiglie tornano dalle vacanze, quindi limitano molto i viaggi e l’uso dell’auto. Terzo fattore, gli hedge funds stanno diventando sempre più pessimisti e stanno tagliando le scommesse sull’aumento del prezzo del Brent al ritmo più alto da oltre un anno a questa parte e dopo essere stati rialzisti dal 2010 a oggi. Insomma, se la smart money dice no, avrà i suoi motivi per non credere più al rimbalzo sul breve periodo.
E il prezzo del calo del petrolio non ha creato danni soltanto alle entrate dei Paesi esportatori o ai livelli occupazionali dei bacini estrattivi principali, visto che chi ha scommesso sui titoli petroliferi o sulle obbligazioni ha visto sparire in poco più di un anno 1,3 triliardi di dollari, il Pil annuale del Messico, come ci mostra il quarto grafico.
Prendiamo, ad esempio, il miliardario Carl Icahn, il quale quando il petrolio era ai massimi nel giugno del 2014 vedeva la propria quota azionaria nella Chesapeake Energy Corp. avere un controvalore di 2 miliardi, mentre oggi lo stesso gruppo è il peggio performante dello Standard&Poor’s 500 e la perdita per Icahn è stata di circa 1,3 miliardi di dollari, nonostante nello stesso periodo l’indice in generale sia salito del 6,9%.
Anche i fondi pensione statali e le compagnie assicurative sono state colpite duramente, visto che gli adviser di investimento che gestiscono i mutual fund e gli ETF che sono alla base di molti piani pensionistici, al giugno 2014 erano esposti sul settore energetico per circa 1,8 triliardi di dollari, stando a dati di Bloomberg. Per Chris Beck, capo investimenti per piccole e medie impresa alla Delaware Investment di Philadelphia, con 180 miliardi di dollari di assets in gestione, «è stato indubbiamente un colpo molto duro. Tutti quanti pensavano che il petrolio sarebbe comunque rimasto nell’area 80-90 dollari al barile, anche una volta terminato il picco dei massimi».
Il Sistema pensionistico dei dipendenti pubblici della California, un fondo da 303 miliardi che garantisce benefits a 1,72 milioni di persone, deteneva una quota della Pioneer Natural Resources Co. pari a 91,8 milioni di dollari nel giugno del 2014, un’azienda che all’epoca valeva 33 miliardi di dollari ed era uno dei principali produttori di shale oil del Texas. Oggi la Pioneer vale meno di 19 miliardi di dollari e il Fondo californiano ha visto la sua partecipazione perdere circa 40 milioni di valore di mercato. Ed ecco che da giugno dello scorso anno, la capitalizzazione di mercato totale della 157 compagnie energetiche quotate sull’MSCI World Energy Sector Index di Bloomberg o sul Bloomberg Intelligence North America Independent Explorers&Producers Index ha perso circa 1,3 triliardi di dollari. Certo, se il prezzo del petrolio rimbalzerà gli investitori potranno rifarsi di qualcosa, ma sicuramente i valori del barile non risaliranno così velocemente come sono scesi: dopo la bolla tech del 2000, capace di spazzare via 7 triliardi di valore di mercato dal Nasdaq Composite, ci sono voluti circa 15 anni prima che il mercato tornasse ai valori pre-crollo.
E stando a un recente sondaggio condotto sempre da Bloomberg, l’attesa di risalita media per il prezzo del petrolio da qui al primo trimestre del 2016 è di meno di 20 dollari al barile. Ma se in America si piange, altrove un eventuale calo ulteriore del prezzo del barile in area 40 dollari vorrebbe dire problemi seri di tenuta stessa delle finanze statali. Mi riferisco alla Russia, la quale sta già affrontando recessione e sanzioni internazionali, oltre a un’inflazione quasi a doppia cifra e che potrebbe vedere la propria Banca centrale costretta a un aumento dei tassi di emergenza – dopo quattro tagli già compiuti solo quest’anno – se per caso la dinamica del prezzo dovesse diventare ulteriormente ribassista, almeno stando al 65% degli economisti che hanno risposto al sondaggio di Bloomberg tra il 24 e il 29 luglio scorso.
Di più, per il 39% degli interpellati il governo potrebbe arrivare a imporre controlli sui capitali in stile greco e il 22% prevede la nazionalizzazione di almeno un paio delle principali banche. E attenzione, perché lo scenario dei 40 dollari è quello peggiore adottato dalla stessa Banca centrale russa nelle sue simulazioni pre-compilazione del budget, un quadro che vedrebbe un deficit di circa 600 miliardi di rubli e il raddoppio delle sofferenze bancarie: il 69% degli economisti interpellati ritiene queste stime accurate, sia riguardo i rischi per l’economia russa che per gli istituti bancari.
Come ci mostra l’ultimo grafico, l’impatto sulla crescita del petrolio a 40 dollari al barile sarebbe particolarmente severo, capace di indebolire il rublo del 65% sul dollaro entro la fine di quest’anno e di causare all’economia una contrazione del 5% quest’anno e dell’1% nel 2016. Cifre che vanno comparate con lo scenario più avverso compilato da Bloomberg nel suo ultimo survey mensile, dal quale emerge consenso per una contrazione del 3,5% dell’economia quest’anno e una crescita dello 0,5% per il prossimo. Ma anche con il petrolio che trada in area 50 dollari al barile, gli economisti vedono un 83% di possibilità di recessione nei prossimi 12 mesi, giù rispetto al 95% dello scorso mese, ma comunque il dodicesimo mese di fila in cui la previsione è ben al di sopra del mark del 50%.
Ma c’è anche di peggio, visto che il consensus vede solo il 28% degli interpellati convinto che l’Ue comincerà a rimuovere le sanzioni e il congelamento degli assets russi durante il 2016, giù dal 52% del mese di maggio, mentre soltanto un economista interpellato si aspetta che gli Usa ammorbidiranno le sanzioni nei prossimi 12 mesi. Insomma, mai come oggi, paradossalmente, uno scontro – anche se non frontale – in Siria, è utile al Cremlino quanto alla Casa Bianca per evitare una recessione in piena regola.
D’altronde, con 18 delle 22 commodities che compongono il Bloomberg Commodity Index in mercato ribassista, ovvero a -20% dai massimi, ci troviamo nella medesima situazione dell’ottobre 2008, un mese dopo il crollo di Lehman Brothers! Serve una guerra, spiacente ma il moltiplicatore keynesiano del warfare non può più attendere. I siriani? Danni collaterali, come sempre in queste dinamiche.