Nelle analisi grezze di mercato, si fa spesso affidamento ai cosiddetti “background indicators”, ovvero varie metriche di investimento che descrivono le condizioni di lungo termine ma che non sono esse stesse dei catalizzatori. Di fatto, però, sono ottimi misuratori del rischio potenziale una volta che un evento catalizzatore arrivi a innescare un calo dei corsi. Bene, nel mondo attuale abbiamo almeno una mezza dozzina di potenziali eventi destabilizzatori, dalla Cina ai mercati emergenti nel loro complesso, dal prezzo del petrolio ai rischi di controparte sulla catena del collaterale, dai dati macro che indicano tutt’altro che ripresa al combinato di debito pubblico/privato che grava sulle valutazioni degli assets.
Oggi come oggi c’è un “background indicator” molto netto sul mercato ed è il livello del margin debt sulla Borsa di New York, ovvero il denaro preso in prestito per acquistare a leva titoli a Wall Street. Come sapete da tempo, più alto è il margin debt, più il sistema è esposto al leverage e quindi più cresce il rischio potenziale in caso di esplosione delle bolla, in prima istanza le margin calls per chiudere forzatamente le posizioni a qualsiasi prezzo il mercato imponga. Ad aprile di quest’anno, il margin debt sul Nyse ha raggiunto il massimo di tutti i tempi a più di 500 miliardi di dollari ma, come ci mostra il grafico a fondo pagina, negli ultimi mesi si è sgonfiato un po’, visto che dopo le correzioni al ribasso di agosto ha toccato 473 miliardi, giù del 6,7% dai massimi.
Il dilemma che sta attanagliando sempre più analisti e traders in questi giorni è il seguente: come valutare questo sgonfiamento, un salutare deleverage da un eccesso di posizioni a leva oppure l’inizio di un trend più ampio dove l’insieme di rischi potenziali per un corso ribassista diviene rischio reale? Non esistono metodi sicuri per saperlo, ma ci sono dei precedenti, per l’esattezza dal 1999 a oggi ci sono stati quattro casi di margin debt calato di almeno il 6,7% dai massimi: aprile 2000, agosto 2007, maggio 2010 e agosto 2011. Come sappiamo, i primi due ritracciamenti si sono sostanziati in vere e proprie correzioni di lungo termine, coincidendo di fatto con l’inizio di un mercato dell’orso ciclico per le equities. Negli altri due casi, nonostante si sostanziarono correzioni dolorose sui corsi, non si è assistito a ritracciamenti prolungati sul margin debt.
Nei fatti, per quanto riguarda il maggio 2010 e l’agosto 2011, l’andamento del margin debt apparve quasi sconnesso dai corsi, visto che la correzione degli stessi era quasi già finita. Guardando alcune altre metriche, possiamo dire che ci sono somiglianze tra la situazione attuale e quelle del 2010 e 2011, soprattutto con quest’ultimo caso, quindi è possibile che il ritracciamento di mercato che abbiamo visto in agosto e in parte in settembre abbia ormai terminato la sua corsa e non intenda sostanziarsi in una correzione vera e propria, ma ci sono anche delle differenze. Nel 2010 e 2011, il margin debt non era ai suoi massimi storici, cosa che invece accadde nel 2000 e 2007.
Cosa pensare, quindi? Una cosa va tenuta in mente, ovvero considerando le letture da massimo storico del margin debt, se quello che abbiamo vissuto è l’inizio di un calo più ampio, la risultante mossa sia sul debito a leva che sulle valutazione dei titoli sarà ben più ampia di quella di una correzione di breve termine. Quindi, se abbiamo un 50% di possibilità tra l’opzione benigna di quel calo e quella maligna, le conseguenze di due dinamiche opposte sarebbero molto differenti tra loro. In ogni mercato rialzista, infatti, alcuni eccessi si creano nel corso delle sue durata e metriche come il margin debt all’inizio e nel pieno del corso rialzista sono fattori favorevoli, ovvero spingono ancora più al rialzo gli indici, una sorta di spirale ottimistica auto-alimentante. Ma quando la musica si ferma e il mercato comincia a correggere, questi fattori positivi si tramutano sempre in fattori di drammatizzazione della situazione, visto che nel caso del margin debt le vendite forzate su margin calls tendono a esacerbare – e di parecchio – il danno e tramutano le correzioni in crolli e sell-off. Attenzione, quindi, a tenere d’occhio le metriche che sottendono i cali degli indici, poiché a oggi nessuno è in grado di interpretare con certezza quel calo nel margin debt, un rischio potenziale che potrebbe tramutare una fase di “ossigenazione” dei corsi dopo la lunga cavalcata rialzista in una correzione più lunga e dolorosa del previsto, tanto più che alcune dinamiche cominciano a essere sconnesse.
Ad esempio, questa, come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, ovvero il fatto che l’unica cosa che era funzionata negli ultimi sette anni, cioè il meccanismo di trasmissione dal Qe delle Banche centrali ai mercati, l’unica ragione dei corsi rialzisti perenni, di colpo sembra essersi interrotto bruscamente. Questa dinamica è chiara soprattutto sugli indici Usa, dove lo Standard&Poor’s attualmente non è in ribasso solo rispetto alla fine del Qe3 ma anche di un -5% su base annua, il calo maggiore dal 2008.
E qui arriva la parte a mio avviso fondamentale dell’analisi, una chiave che potrebbe aiutarci a valutare correttamente il calo del margin debt a cui stiamo assistendo. Si tratta della cosiddetta “dinamica dei flussi incrociati” e per capirla occorre partire dal secondo grafico e dai due unici concetti cardine in un ambiente keynesiamo come quello attuale: ovvero, crescita reale e creazione del credito. Come ci mostrano i grafici, c’è stata molta creazione del credito ma poca crescita o, almeno, non abbastanza a giustificare tutto quel flusso di credito. Perché? Ce lo spiega il terzo grafico, il quale ci mostra come il creatore marginale di credito dall’inizio della crisi finanziaria in poi non siano state le Banche centrali dei Paesi sviluppati, le quali si sono limitate a operare offsetting sul deleverage del settore privato e a evitare i default, bensì dai mercati emergenti e dalla Cina in particolare. Quindi, capite da soli che se l’unica vera fonte di creazione del credito, quindi di liquidità per i mercati, sono stati gli emergenti e la Cina, ora che questi stanno drenando liquidità dalle loro riserve valutarie cercare di sostenere le loro valute nella guerra innescata dalla minaccia di rialzo dei tassi delle Fed, la possibilità che il sistema grippi per mancanza di credito sale e di molto.
A meno che la Fed non decida di stampare ancora e questa volta in versione Bernanke, ovvero lanciando letteralmente centinaia di miliardi dall’elicottero per cercare di spegnere la sete insaziabile del mercato. Tanto più che se da un lato inizialmente il moltiplicatore del credito dei mercati emergenti è stato molto maggiore di quelli sviluppati, ora stiamo vivendo una situazione che vede quell’effetto già in sparizione dai mercati, quindi di fatto facendo venire a mancare giorno dopo giorno un supporto ai corsi degli indici.
Capite perché la situazione cinese è così importante? Chissenefrega dello Shanghai Composite e di chi rischia di perdere tutto in quel casinò indecente, qui la questione è un’altra. Le cosiddette “Big 4” – Fed, Bank of Japan, Bce e Bank of England – nel tentativo di rimpiazzare la creazione di credito venuta a mancare da parte delle banche commerciali dall’inizio della crisi hanno portato i loro bilanci congiunti a salire fino a poco meno di 10 triliardi di dollari. Il problema è che solo negli ultimi cinque anni, gli assets delle banche cinesi (e quindi anche le liabilities che questi implicano) sono arrivati a qualcosa come 15 triliardi di dollari, portando il totale a 24 triliardi. Insomma, la Cina da sola ha espanso il suo stato patrimoniale del 50% in più rispetto a quanto fatto dalle altre quattro Banche centrali insieme!
Cosa accadrà sui mercati se davvero la Cina dovrà compiere deleverage per contrastare i cali di mercato e sostenere la svalutazione dello yuan, anche vendendo riserve valutarie e titoli di Stato Usa? Attenti al margin debt nelle prossime settimane, potrebbe essere il canarino nella miniera di carbone.