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Home » Chiesa » Encicliche » SPY FINANZA / Da Volkswagen a Glencore, i “giganti” dai piedi d’argilla

  • Encicliche
  • Economia e Finanza

SPY FINANZA / Da Volkswagen a Glencore, i “giganti” dai piedi d’argilla

Mauro Bottarelli
Pubblicato 29 Settembre 2015
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Infophoto

Volkswagen, Glencore, Arabia Saudita: le difficoltà di questi giganti, spesso coperte da una sorta di ambientalismo, non vanno prese sottogamba, dice MAURO BOTTARELLI

Cosa sia un asset-backed security ormai vi è noto dai tempi infausti di Lehman Brothers, ma è meglio rinfrescare la memoria, senza entrare troppo nel tecnicismo. Si tratta di uno strumento finanziario creato da una banca e “basato” su un qualche asset in garanzia, solitamente un credito che la banca vanta con un suo cliente. Gli Abs di solito sono il corrispettivo di salsicce con dentro un certo numero di crediti più o meno della stessa durata e rischiosità, ad esempio una serie di mutui che scadono in un certo mese, con una categoria più o meno omogenea di garanzie e categorie più o meno omogenee di mutuatari. 


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Una parte essenziale della trasmissione del credito dalla Bce alle banche e poi dalle banche ai clienti è rappresentato proprio dallo “sconto” presso la Bce, ovvero le banche se hanno bisogno di denaro fresco da prestare ai clienti prendono i loro crediti, li impacchettano in un Abs, lo presentano alla Bce e l’Eurotower fornisce liquidità per una percentuale del valore nominale dell’Abs e applica un tasso di interesse. 


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Bene, prima ancora che sia il mercato delle vendite a emettere la sentenza di colpevolezza verso Volkswagen, ci ha pensato qualcun altro: la Bce ha infatti deciso di sospendere l’acquisto di Abs garantiti da titoli VW. Lo hanno reso noto fonti vicine all’operazione, a detta delle quali l’istituto di Francoforte svolgerà una revisione prima di prendere una decisione finale su un’eventuale esclusione permanente dell’acquisto di questi asset dal piano di acquisti della Bce. In parole povere, Mario Draghi ha deciso di non scontare più Abs con all’interno debito della Volkswagen. 

Cosa significa questo? Due cose: primo, la Bce considera il debito di Volkswagen a rischio, più o meno come quello greco, e, secondo, la Volkswagen dovrà pagare un forte premio alle banche per ottenere altro credito, perché il suo debito non è più eligibile per essere scontato dalla Bce. Scusate, ma l’Eurotower non era di fatto un’emanazione della Bundesbank, dove solo i tedeschi prendevano le decisioni che più facevano loro comodo? Così, tanto per sapere. Forse, invece, la questione è differente: ovvero, gli Usa hanno assestato un colpo micidiale all’industria tedesca e al surplus commerciale di Berlino che più volte Washington aveva attaccato, mentre ora Mario Draghi – uomo Goldman Sachs, meglio ricordarlo sempre – può chiudere i conti con gli avversari di sempre, ovvero Wolfgang Schauble e Jens Weidmann, indeboliti dallo scandalo. 

Le mie potranno anche essere solo delle supposizioni, resta il fatto che la Bce non acquisterà più Abs che contengano debito Volkswagen, soprattutto all’interno del suo programma di Qe e i costi del finanziamento sul mercato per la casa tedesca sono già saliti. E molto. A inizio anno, Volkswagen poteva finanziarsi sul mercato allo 0,7% di interesse sul lungo termine, praticamente nulla, ora invece il rendimento richiesto è già salito al 2,3%! Un aumento del premio di rischio enorme, a fronte del quale il credit default swap dell’azienda è schizzato alle stelle, con quello a 5 anni triplicato a quota 227.4 punti base venerdì scorso.

E non basta, perché le “tre sorelle” del rating hanno già annunciato possibili taglia alle valutazioni di outloook e debito della casa produttrice tedesca, un qualcosa che se avverrà non potrà che esacerbare i termini di finanziamento sull’open market. Eppure, attorno a me continuo a sentire soltanto malcelata gioia per questo capitombolo della credibilità dei “crucchi”, quasi l’Italia avesse qualcosa da guadagnarci. E invece no, ha solo da perderci, visto che il gruppo Volkswagen acquista annualmente componentistica italiana per un valore di oltre 1,5 miliardi di euro, mentre nel 2014 l’intera Germania ha acquistato componenti dal nostro Paese per 3,97 miliardi di euro, stando a dati dell’Anfia, l’Associazione che rappresenta la filiera dell’industria automobilistica italiana. Di più, la Germania è di gran lunga il primo partner commerciale dell’Italia, sia come mercato di sbocco, sia come fonte di provenienza dell’import. 

Il volume dell’interscambio bilaterale è molto elevato: nel 2014 è stato di circa 103 miliardi di euro, una cifra che ammonta quasi alla somma degli scambi che intratteniamo con Francia e Regno Unito insieme. I rapporti di subfornitura industriale tra i due paesi sono talmente rilevanti e consolidati da configurarsi come relazioni di mutua dipendenza e i flussi di investimento sono particolarmente significativi in entrambe le direzioni: sono oltre 1.800 le imprese tedesche in Germania partecipate da aziende italiane (che danno lavoro a quasi centomila persone) e quasi 1.400 le aziende in Italia a capitale tedesco (che garantiscono oltre 140mila posti di lavoro). 

Avete ancora voglia di ridere delle disgrazie di Volkswagen? Andate a dirlo a chi lavora in quelle aziende e alle loro famiglie, vediamo cosa vi dicono, vediamo se solo felici della figuraccia di Merkel e soci. Ma si sa, le emissioni fanno paura, il terrorismo ambientalista è una macchina di propaganda potentissima, basta far vedere due ghiacciai che sgocciolano e quattro pesci morti in un lago e tutti si commuovono e preoccupano, forse dimenticandosi della quantità di balle anti-scientifiche che sono alla base della filosofia verde. Ma attenzione, perché nel silenzio generale, un’altra azienda di dimensioni globali sta per andare zampe all’aria, come vi dicevo la scorsa settimana. 

Glencore, il gigante minerario anglo-australiano, sta vedendo il proprio titolo in caduta libera, come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, avendo perso il 27% solo nel mese di settembre, qualcosa come 13 miliardi di capitalizzazione bruciata, mentre da inizio anno il calo è stato del 75%, facendo di Glencore il peggior performer dell’indice Ftse 100 di Londra. Chi ha comprato il titolo a 125 pence solo il 16 settembre scorso, ora si ritrova in mano carta che vale circa 73 pence, giù del 43% in due settimane. Di fatto, se il prezzo delle commodities resta quello attuale, Glencore deve comunque porre in essere una ristrutturazione selvaggia per restare a galla, mentre se dovesse calare di nuovo sarebbero guai serissimi. Anche perché i prossimi in fila per patire la situazione sono i detentori obbligazionari, visto che il bond da 1,25 miliardi di euro con scadenza marzo 2021 viaggia già oggi a 78 centesimi sull’euro, mentre il bond da 750 milioni con scadenza 2025 è a quota 67 sull’euro, entrambi minimi record. Qualche analista parla chiaramente di trading al di sotto dei 50 centesimi nei prossimi mesi, se non settimane. 

Non a caso, come ci mostra il secondo grafico, il costo per assicurarsi sul debito di Glencore è salito ai massimi record, con il credit default swap letteralmente esploso, passando dai 170 punti base del marzo 2014 ai meno di 600 di venerdì e ai 708 di ieri, quadruplicato in poco più di un anno e su di 154 punti base in un solo weekend! Ma c’è un’altra commodity che sta mettendo in ginocchio molti grandi player, soprattutto in Medio Oriente: il petrolio. 

 

 

L’Arabia Saudita ha ritirato decine di miliardi di dollari dagli investimenti all’estero per cercare di arginare il deficit e ridurre l’esposizione alla volatilità dei mercati azionari a causa del dimezzamento del prezzo della materia prima: «È stato il nostro Black Monday», ha commentato la settimana scorsa al Financial Times un gestore di fondi comuni. Nigel Stilltoe, responsabile dei servizi finanziari della società di market intelligence Insight Discovery, ha calcolato che l’Arabia Saudita deve aver ritirato fra i 50 e i 70 miliardi di dollari di investimenti oltre confine nei mesi scorsi, mentre altri manager dell’industria del risparmio gestito stimano che i disinvestimenti siano andati ben oltre i 70 miliardi di dollari. Anche perché nel frattempo le riserve in valuta estera della Saudi Arabian Monetary Agency sono crollate di 72 miliardi di dollari dall’estate dell’anno scorso, quando il petrolio ha cominciato a scendere e da quando il Paese ha cominciato a finanziare la campagna militare in Yemen. 

La Banca centrale dell’Arabia sta preparando poi l’emissione di un’obbligazione (dopo anni che non lo faceva), ma, come nel caso di Volkswagen, il premio di rischio richiesto sarà alto, perché toccare le riserve è come toccare l’alta tensione, i mercati prezzano subito la tua fragilità e vulnerabilità. Mentre parte di questo denaro è stato usato per ridurre il deficit a casa, il resto, sostengono i money manager internazionali, pare sia stato investito in asset meno rischiosi e più liquidi. Basti pensare che il Fondo sovrano del Qatar, Qatar Investment Authority, maggior detentore delle azioni privilegiate Volkswagen col 13% e il terzo maggior azionista delle azioni ordinarie (17%), ha visto evaporare 3,8 miliardi di euro nei primi due giorni dopo lo scoppio dello scandalo che sta travolgendo il gruppo automobilistico tedesco. E lo stesso vale per Glencore. 

Nel corso degli ultimi decenni, l’Arabia Saudita ha investito nei fondi di Aberdeen, Fidelity, Invesco, Goldman Sachs e, soprattutto, riferisce il FT, BlackRock e il gestore Usa ha già registrato uscite dall’Europa, Medio Oriente e Africa. Nel secondo trimestre del 2015 BlackRock ha registrato uscite nette per 24,1 miliardi dall’Emea, contro afflussi netti per 17,7 miliardi nel primo trimestre. Nel frattempo, il colosso Royal Dutch Shell Plc ha deciso che smetterà di effettuare esplorazioni offshore in Alaska: motivo? Gli alti costi e una normativa restrittiva voluta dai gruppi ambientalisti, guarda caso. E guarda caso, la decisione è stata presa sei settimane dopo aver ottenuto il via libera nelle acque dell’Artico al largo degli Usa, un business che per Shell oggi vale 3 miliardi di dollari, oltre a 1,1, miliardi di commesse in arrivo. 

Sicuri che tutto questo ambientalismo ci faccia proprio bene? Sicuri che veder andare a zampe all’aria aziende di dimensioni globali ed enormi fornitori di liquidità attraverso il riciclo del petrodollaro come l’Arabia Saudita siano cose da niente, incidenti della storia cui si può passare sopra con un sorriso, pensando alla faccia di Angela Merkel in questo momento? Fossi in voi penserei bene a cosa volete, rischiate di ottenerlo. Spiacente, ma nascondersi dietro l’ultima enciclica del Papa per giustificare quello che è fascismo ambientalista rischia di costarci davvero caro, un prezzo che io non intendo pagare alla lobby verde e ai suoi interessati padrini d’Oltreoceano.


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