L’Asia balla ancora, ma c’è davvero da preoccuparsi? Cominciamo dalla cronaca. Ieri si è registrato un nuovo dietro-front per le Borse asiatiche, di fatto in coupling quasi perfetto con il nuovo ritracciamento dei prezzi petroliferi sotto i 30 dollari al barile e con i timori che questi siano di fatto delle cartine di tornasole sulla crescita globale. In Giappone sono finiti sotto pressione i titoli finanziari e quelli automobilistici, mentre le azioni di Toshiba sono scese ai minimi dal 1980 sulle indiscrezioni in base alle quali saranno contabilizzati oneri straordinari per circa 160 miliardi di yen relativi alla divisione americana Westinghouse.
Di più, il meeting della Fed iniziato ieri e che terminerà oggi certamente non ha garantito tranquillità sui mercati, visto che se è da escludere qualsiasi nuovo intervento sui tassi, gli investitori vivisezioneranno il linguaggio utilizzato nei documenti proprio per cercare di trarre indicazioni sulle mosse future della Banca centrale Usa. Inoltre, dopodomani la stessa Bank of Japan è chiamata a dare indicazioni sulla politica monetaria e sulle previsioni inflazionistiche, il tutto in un contesto macro che sembra gridare al fallimento del cosiddetto Abenomics.
L’ultima conferma è arrivata proprio l’altro giorno, visto che le esportazioni giapponesi a dicembre hanno registrato il calo più sostenuto da tre anni, alimentando il timore di una contrazione del Pil nell’ultimo trimestre del 2015 e segnalando l’impatto negativo del rallentamento della Cina e degli altri Paesi emergenti sull’economia nipponica, fortemente dipendente dall’export. Stando ai dati del ministero delle Finanze, a dicembre le esportazioni hanno segnato una contrazione dell’8% su base annua – peggior risultato da settembre 2012 – depresse dal rallentamento della domanda cinese. In calo del 18,1% le importazioni su base tendenziale: il risultato è stato un avanzo commerciale pari a 140,2 miliardi di yen contro 100 miliardi delle attese e dopo il rosso di 379,7 miliardi a novembre.
E proprio la debolezza di questi dati manterrà alta la pressione su Banca del Giappone perché vari nuove misure espansive: sull’intero 2015, le esportazioni giapponesi hanno segnato una crescita del 3,5%, il terzo incremento annuo di fila, mentre le importazioni sono scese dell’8,7%, segnando la prima contrazione da sei anni, a causa del collasso del prezzo del petrolio. Ma il ministro delle Politiche economiche e fiscali, Akira Amari, ha sottolineato che, a differenza della Banca centrale europea, la Banca del Giappone tende a non segnalare al mercato in anticipo le sue mosse. Amari, peraltro, è sotto tiro per l’emergere di uno scandalo su finanziamenti irregolari che potrebbe costringerlo alle dimissioni: domani è chiamato a dare le sue spiegazioni finali.
E se anche il Pil della Corea del Sud (quarta economia asiatica) nel quarto trimestre è salito solo dello 0,6% sul trimestre precedente, leggermente al di sotto delle attese, ieri a fare sensazione è stato il calo del 6,15% della Borsa di Shanghai. A detta di analisti e investitori si tratta del più chiaro caso di panic selling, nonostante la Banca centrale cinese (Pboc) abbia iniettato 67 miliardi di dollari nel sistema finanziario attraverso meccanismi di finanziamento a breve termine per evitare una possibile crisi di liquidità a ridosso delle festività per il Capodanno lunare. Ma cosa c’è davvero da temere dalla Cina? Il governo sta sbagliando tutto o forse le sue manovre sono tipiche di chi ha un progetto a medio termine?
Partiamo da principio, ovvero dalle criticità reali. In questi giorni si fa un gran parlare di sofferenze bancarie degli istituti di credito italiani e delle misure che il governo vorrebbe prendere per risolvere il problema, leggi bad bank, ma negli stessi momenti, a Davos, si discuteva del medesimo argomento su scala un pochino più grande. Ovvero, il fatto che il cosiddetto bad debt nel sistema bancario cinese sarebbe dalle quattro alle cinque volte più grande di quanto ammesso ufficialmente dalle autorità, ponendo un rischio di stabilità finanziaria enorme per Pechino. Il professor Ken Rogoff della Harvard University ha dichiarato al simposio svizzero che questo rappresenta l’ultima tessera del domino che deve cadere all’interno del processo di disvelamento della fine del super-ciclo di debito globale. Un disastro potenziale, visto che questo potrebbe svelare al mondo in cosa si sia realmente sostanziata l’economia cinese di almeno gli ultimi venti anni: un’enorme massa di mal-investment creata e fatta crescere dalla bolla del credito pari almeno a 26 triliardi di dollari. Così il professor Rogoff ha smontato il dato ufficiale di sofferenze all’1,5% del totale: «Quel numero è credibile quanto quello del Pil cinese».
Insomma, anche per quanto riguarda Pechino sembra che il castello di carte stia traballando non poco. La percentuale reale, infatti, sarebbe tra il 6% e l’8%, un qualcosa che spalanca la strada al rischio di “cigno nero” se soltanto la politica monetaria delle autorità dovesse sbagliare una mossa nei prossimi mesi. E se anche le banche imbellettano i bilanci compiendo roll-over sulle sofferenze con il beneplacito dei cosiddetti regolatori, una volta che il mercato dovesse decidere di andare a vedere i bluff per Pechino la questione si farebbe davvero seria.
Per Ray Dalio, investitore di lunga data e fondatore di Bridgewater, il rischio è che ancora oggi in Cina il credito cresce a un tasso molto maggiore dell’economia: l’efficienza del credito è talmente collassata che ci vogliono 4 yuan di nuovo debito per generarne 1 di crescita economica, quando soltanto dieci anni fa la ratio era di 1:1. Le riserve valutarie di Pechino sono scese di 700 miliardi di dollari a quota 3,3 triliardi a causa delle fughe di capitale che continuano a superare di volume gli inflows del surplus commerciale: un calo del genere, prendendo un pattern storico di correlazione, normalmente è seguito da una svalutazione della moneta di circa il 25%.
Il problema è che se non è sempre facile per un governo mantenere il controllo sulla moneta, una svalutazione di quella entità si sostanzierebbe in un vero e proprio terremoto a livello globale, capace di trasmettere un’onda di deflazione verso un’economia mondiale che già oggi sta flirtando con la trappola deflazionaria. Solo in dicembre la Banca centrale cinese ha speso circa 140 miliardi di dollari per difendere lo yuan, sintomo che la gestione da peg con il dollaro a nuovo regime è stata a dir poco cattiva.
C’è però un altro problema che va a innescarsi in un questa dinamica. Ovvero, il fatto che l’economia cinese stia rallentando. E parecchio. Ma quanto stimolo ci vorrebbe per riattivarla?
A dare una risposta ci ha provato l’analista più credibile di tutti quando si parla di Cina, ovvero Charlene Chu della Autonomous Research, a detta della quale nessuno si aspetterebbe una cifra simile: «Ampie iniezioni di credito sono possibili, ma per ottenere la stessa magnitudo che si ebbe con l’impulso al credito del 2009, oggi come oggi ne servirebbe una da 37,5 triliardi di yuan per il 2016». Tradotto in dollari, 5,7 triliardi! Questo numero astronomico è basato su calcoli interni della Autonomous Research relativi al cosiddetto Tsf (Total social financing), una metrica che il governo di Pechino ha sviluppato per tracciare come il denaro sta fluendo attraverso l’economia.
Certo, un bazooka simile difficilmente potrà essere messo in campo, ma quanto fatto nell’ultimo anno e mezzo ha sortito qualche effetto nel rivitalizzare l’economia? Oggettivamente no, ma forse uno stimolo shock non è ciò che Pechino sta cercando, almeno non ora visto che i dati del Pil segnalano rallentamento ma non certamente stagnazione.
Cosa sta cercando di fare Pechino nell’immediato? Due cose. La prima è sgonfiare ordinatamente la bolla azionaria e con il -6% di ieri il processo si sta avvicinando molto alla riuscita: con un calo di un altro 15% saremmo quasi a valutazioni sostenibili, ma già oggi, rispetto ai massimi deliranti del giugno 2015, si resta in bolla ma in condizioni umane. Se non accade qualcosa di imprevisto e di molto grave, possiamo dire che Pechino ha compiuto un mezzo miracolo. La seconda cosa è tipica del modo di ragionare cinese, ovvero pensare al domani e non all’oggi unicamente. La Cina sta infatti difendendo lo yuan per non farlo indebolire a differenza di quanto si pensi, visto che nelle condizioni attuali di mercato Pechino non ha bisogno di una valuta più debole per esportare, stante anche il dollaro forte e il dumping della sovra-produzione che innesca export di deflazione. Pechino ha mire maggiori, ovvero fare in modo che lo yuan – dopo essere stato incluso nel basker degli Sdr del Fondo monetario internazionale, le valute benchmark – ora vuole consolidare lo status di moneta forte e credibile per lo yuan per tentare l’assalto storico al dollaro come valuta di riferimento mondiale. Non è un caso che gli accordi petroliferi e commerciali con Russia, India, Iran, Arabia Saudita e molti Stati africani implichino l’utilizzo di yuan e non di dollari.
Per ottenere questo ambizioso risultato la Cina sta “bruciando” riserve e attuando politiche in equilibrio fra il controllo dei capitali e il libero mercato per controbilanciare una evidente fuga dei capitali. Un buon indicatore di questa fuga è il differenziale fra Cnh e Cny, ovvero lo yuan della mainland e quello di Hong Kong, con quest’ultimo che può ancora fluttuare sul mercato e che si sta svalutando (anche se lentamente), mentre lo yuan cinese è fissato in maniera stabile. Riuscirà la Cina in questa missione che appariva impossibile solo dieci anni fa? Certamente i rischi sul cammino sono tanti, ma quantomeno c’è una strategia che sottende le mosse di Pechino, a differenza ad esempio di quelle di Washington che paiono orientate unicamente a salvaguardare il casinò a cielo aperto conosciuto come Wall Street.
Attenzione a cosa accade in Cina, potrebbe davvero essere il prodromo di un nuovo equilibrio globale.