Che il governo in carica non si stia occupando dell’ordinaria amministrazione, come continua a ripetere in tv il ministro Graziano Delrio, lo ha confermato la decisione del Consiglio dei ministri di dare il via libera al decreto con la rete di sicurezza pubblica per le banche in difficoltà e con gli altri interventi in programma sugli istituti di credito, il quale arriverà tra domani e venerdì e metterà in campo un fondo fino a 20 miliardi. La cifra è superiore a quella circolata nei giorni scorsi (si parlava di 15), ma comprende anche due miliardi di base per l’attivazione degli 80 miliardi di garanzie pubbliche sulle emissioni di liquidità, meccanismo già autorizzato da Bruxelles a luglio. L’esecutivo, insomma, farà precedere l’attivazione di questo ombrello a tutto campo per le banche da un passaggio parlamentare per far votare l’autorizzazione alla modifica dei saldi di finanza pubblica.
Il percorso sarebbe segnato anche se l’operazione di mercato del Monte avesse successo: il crollo registrato lunedì in Borsa dal titolo del Monte non offre infatti segnali di fiducia e contribuisce all’accelerazione sull’intervento pubblico, tanto che la notizia giunta da palazzo Chigi lunedì sera ha messo il turbo ai titoli del comparto a Piazza Affari. Insomma, siamo all’emergenza e la cosa non deve stupire: sono settimane che vi dico che dal risiko Mps non si esce senza una soluzione shock e di sistema e, forse, siamo arrivati al punto. Trovo infatti ridicole le critiche avanzate dalle opposizioni, visto che tutti quanti sanno che il Quirinale ha dato il via libera a questo governo con l’intenzione di farlo durare fino a fine legislatura: che poi Matteo Renzi intenda sabotarlo, avendo il Pd i numeri per staccare la spina, è altro discorso, ma prima di farlo, dovrà prendersi la responsabilità politica del suo atto.
E attenzione, perché una nuova dinamica sta andando a impattare non poco sugli scenari economici globali. Ieri, all’apertura dei mercati dei cambi, l’euro quotava 1,0390, al minimo da 14 anni e non lontano dal livello di fine 2002, quando toccò 1,0365. E ora, stando gli analisti, potrebbe scendere presto sotto quota 1,03, viste le incertezze che pesano sull’eurozona. Ne è quasi certo Takuya Kawabata del Gaitame.Com Research Institute, a detta del quale in caso di rottura del livello a 1,03, non ci sarebbero più supporti significativi fino a 1,0211, minimo dal luglio del 2002: «Ad alimentare le incertezze sul cross contribuiscono le politiche monetarie divergenti, il rischio geopolitico (con le elezioni in Francia e in Germania) e l’incognita legata alla politica monetaria e fiscale che sarà probabilmente adottata dall’amministrazione Trump». Ma, come sempre, non tutti concordano: «Il dollaro statunitense si è apprezzato del 25% da metà 2014, stando all’indice Bloomberg Dollar Spot. La forza del biglietto verde ha spinto al ribasso i prezzi dei beni importati, ma questi hanno ricominciato a salire con la recente stabilizzazione del cambio», afferma Mark Haefele, Global Chief Investment Officer di Ubs parlando con Cnbc, il quale per il 2017 si attende «un deprezzamento del dollaro, che al momento è sopravvalutato».
Stando alle valutazioni della banca svizzera, tra 12 mesi il cambio euro-dollaro dovrebbe attestarsi di nuovo a quota 1,2: «Ci attendiamo una performance superiore dell’euro a fronte del graduale ritiro del programma di quantitative easing della Bce», spiega Haefele. Dello stesso parere anche Unicredit che nel suo outlook per il 2017 vede l’euro a quota 1,10 per fine 2017 e a 1,16 nei 12 mesi dopo, principalmente per il progressivo ritiro degli stimoli monetari da parte della Bce che nella riunione dello scorso 8 dicembre ha annunciato una diminuzione da 60 a 80 miliardi degli acquisti dei titoli mensili il prossimo anno, allungando nel contempo di sei mesi il Qe che sarebbe dovuto terminare a marzo 2017. Insomma, effetto tapering sulla valutazione della moneta unica.
A spingere al ribasso l’euro anche il discorso, lunedì sera, del governatore della Fed, Janet Yellen, che ha parlato di un mercato del lavoro americano che «non è mai stato così solido da quasi un decennio». Ora, al netto del mio articolo di lunedì che ha ridimensionato questa narrativa obamiana ormai stucchevole, a interessarci deve essere invece quanto detto venerdì da Mario Draghi, il quale ha avvertito i leader europei che la combinazione di un aumento dei tassi di interesse a livello mondiale e avvenimenti politici definiti “esplosivi” (come gli esiti delle votazioni in Europa il prossimo anno) porterebbero l’Eurozona a una forte debolezza. A rivelarlo è stata, guarda caso, l’agenzia americana Bloomberg, citando fonti riservate della Bce. Il discorso della Yellen è stato importante perché indica che i tre rialzi nel costo del denaro previsti a inizio mese dalla Fed per il 2017 con molta probabilità avranno luogo: gli investitori, nei giorni scorsi, avevano cominciato a dubitare di questo, supponendo che due ritocchi ai tassi invece di tre sarebbero stati più probabili. Una notizia del genere non è positiva per l’Europa, perché fa confluire gli investimenti e la liquidità verso gli Usa, dove il denaro viene remunerato a tassi più alti e a minor rischio.
Il presidente della Banca centrale europea, ha scritto Bloomberg, ha evidenziato che le votazioni in Europa il prossimo anno, unite a un rallentamento delle riforme e la mancanza di rispetto delle regole di bilancio sono fattori che potrebbero minacciare il ritorno di condizioni che in alcuni Paesi ricordano gli anni turbolenti dal 2010 in poi. Draghi ha spiegato ai leader europei a Bruxelles che tassi più elevati potrebbero lasciare i Paesi che non sono riusciti a tagliare il deficit con un conto più salato da pagare. Ora, al netto che le elezioni in Europa saranno certamente un motivo di instabilità (si chiama democrazia, comunque), resta da valutare ciò che io continuo a sottolineare: ovvero, la reale tenuta dell’economia Usa, determinante per le dinamiche monetarie. Per capirci, attenzione a non attendere trend che non ci saranno, perché significherebbe farsi trovare con la guardia abbassata nel peggior momento possibile.
E questo lo dico a ragion veduta, perché dopo che poche settimane fa la Ford ha fermato quattro impianti a causa del rallentamento delle vendite, GM e Fiat Chrysler hanno annunciato ieri che bloccheranno sette impianti in Canada e Stati Uniti, questo per ridurre le scorte di magazzino ormai a livelli record e per fare fronte alle vendite indebolite. Cosa vi dico da mesi? Il boom dell’auto in America è stato il classico bluff di Obama, si è prodotto ai massimi record senza che ci fosse domanda reale e per stimolare quest’ultima si è cominciato a offrire credito al consumo ai clienti con rating di credito sempre più subprime: risultato, il tasso di delinquencies sta salendo a livelli di guardia e, alla fine, le vendite sono sostenute solo da spesa federale, ovvero sono i vari enti governativi a comprare, quasi il loro parco auto fosse un ammortizzatore sociale per evitare licenziamenti dei lavoratori del comparto.
Il grafico a fondo pagina ci mostra come la ratio scorte/vendite sia ai massimi storici, battuta soltanto dal picco del 2008, quando le vendite si bloccarono del tutto per la crisi: per esempio, le scorte di GM alla fine di novembre erano a quota 874.162, su del 26,5% su base annua. Da qui la decisione di bloccare temporaneamente cinque impianti il prossimo mese, con conseguente perdita del lavoro per almeno tre settimana per circa 10mila addetti. Gli impianti di Detroit-Hamtramck e Fairfax Assembly a Kansas City, saranno fermi per tre settimane, quello di Lansing, in Michigan,per due settimane, mentre quelli di Lordstown, Ohio e Bowling Green, Kentucky, per una settimana entrambi. In quegli stabilimenti si assemblano modelli come la Chevrolet Cruze, Camaro, Corvette, Malibu, Volt e Impala, oltre alla Cadillac CT6, CTS e ATS e alla Buick Lacrosse. Allo stato attuale, i concessionari GM hanno abbastanza Malibu per i prossimi 84 giorni e abbastanza Camaro per i prossimi 177, stando a dati di Ward’s Automotive. Normalmente, il massimo è di 60 giorni. A questo si unisce la decisione di Fiat Chrysler di chiudere gli impianti di Windsor e Brampton, in Ontario, per quattro giorni oltre le festività del nuovo anno, «al fine di allineare la produzione alla domanda», ha ribadito la portavoce, Jodi Tinson.
Il fatto è che se il resto del comparto manifatturiero Usa è in declino secolare, l’industria dell’auto è stata – per il trucco che vi ho raccontato prima – l’unica a mantenere numeri presentabili nel corso della cosiddetta ripresa. Se la domanda continuerà a calare, forzando i fornitori a comportarsi di conseguenza, sarà solo questione di tempo prima che la recessione manifatturiera negli Usa ritorni in grande stile e nel momento peggiore, ovvero quando anche il settore dei servizi non sarà abbastanza forte da reggere la realtà di un’economia nazionale di nuovo in contrazione. Non fatevi ingannare dalla Fed, non ci saranno affatto altri tre rialzi dei tassi nel 2017: anzi, molto probabilmente, ci sarà nuovo allentamento monetario, perché il piano di Trump rischia di schiantarsi contro la realtà recessiva e allora servirà tagliare il costo del denaro, non farlo salire. Se la Bce non saprà rispondere in tempo e adeguatamente, rischiamo di ritrovarci a combattere una battaglia globale con le mani legate dietro la schiena.