Su La Stampa, trionfante intervista di Yoram Gutgeld, renziano di stretta osservanza, sui risparmi (in crescita) della spending review. Ma Gutgeld non dice tutto. SERGIO LUCIANO
“Stiamo passando alla centralizzazione degli acquisti, da 35mila a 33 centrali d’acquisto: significa non solo spendere meno per i beni acquistati ma anche razionalizzare e snellire i processi, con altri risparmi. E posso anticipare che nel 2015 la spesa nominale per i servizi generali è scesa di 4,5 miliardi”, dice Yoram Gutgeld — commissario alla spending review — in un’intervista a La Stampa, ieri. “Puntiamo quest’anno a superare del 20% i risparmi ottenuti nel 2012, che sono stati pari a 6,1 miliardi”, diceva il 7 novembre del 2013 Domenico Casalino, amministratore delegato della Consip, all’Ansa.
Tutti risparmiano, eccome. Poco, però. La spending review l’ha inventata il governo Monti, tra le innovazioni di politica economica varate per non finire nelle mani della Troika quando lo spread tra Btp e Bund era oltre quota 500 punti base. In effetti, la spesa pubblica a frenare aveva cominciato grazie al ministro Tremonti nel 2010.
Poca roba, non sufficiente a contrastare l’ondata di ridicolo piombata da tutto il mondo sul premier per le sue vicende boccaccesche in prima pagina. Monti continuò a tagliare nel 2012. Poi, basta. Il commissario alla spesa pubblica trovato in carica da Renzi, Carlo Cottarelli, è stato segato. Casalino, pur avendo assai bene operato in Consip, sostituito.
Ma di questo, nell’intervista istituzionale rilasciata ieri alla Stampa, Gutgeld non parla. E nonostante, con tutta evidenza, il suo ruolo nel “pensatoio” economico del premier si sia molto ridimensionato a vantaggio, con cadenza semestrale, del “guru” di turno — prima Andrea Guerra, oggi Nannicini, domani chissà — l’ex partner di McKinsey conferma il suo credo: nome, numero di matricola e piena fedeltà al renzismo.
Già capo dell’ufficio di Tel Aviv, artefice del piano di ristrutturazione della spesa militare dello Stato israeliano (scusate se è poco: come mettere le mani alla spesa forestale in Amazzonia) Gutgeld — una laurea in matematica, un Mba all’Ucla di Los Angeles — è uno bravo sul serio. Ma bravo bravo, di quelli che hanno mercato quanto ne vogliono, nel privato. Stipendi da favola, soddisfazioni, una vita a cinque stelle. Perché starsene in un ufficietto di Palazzo Chigi a non contare niente? A far la gara con un Taddei qualsiasi?
Parrebbe afflato ideale. Lui l’ha sempre spiegata così (sempre per modo di dire, è uno che di solito parla a monosillabi). Quel “safari istituzionale” che spesso attrae chi dal lavoro “normale” ha già avuto tutto e può contare su un conto in banca a sei zeri che lo pone al riparo dal problema del 27 del mese. Appunto, com’era anche Andrea Guerra: che dopo sei mesi però, forse per impotenza forse per incapacità forse per attriti col Capo, ha mollato il colpo. O come Roberto Perotti, che dopo aver affiancato Gutgeld sul dossier della spending review, se n’è andato: “Non mi sentivo molto utile in questo momento”, commentò infilando la porta di Palazzo Chigi.
Invece, evidentemente, Gutgeld ha continuato a sentirsi utile, anche se l’antilogicità della situazione mette a dura prova qualsiasi dietrologia sul “perché”. Che Gutgeld stia lì su mandato dei poteri forti americani? Lo pensano in tanti. Poi ci si chiede che forza abbiano poteri che non toccano palla. Che stia lì “in quota” dell’alta finanza ebraica? Ma per favore.
E allora sì, Gutgeld sgomita tra un Lotti e una Boschi per spirito di servizio: probabilmente è questa la vera verità. E continua a decantare il renzismo e le sue riforme come se fossero figli suoi: impermeabile agli evidenti insuccessi di molte riforme e comunque al gap sempre più largo tra le promesse e i risultati. Certo, vive di rendita perché è stata sua l’unica idea che veramente ha fruttato consenso a Renzi, quella degli 80 euro in busta paga; a qualcosa del genere aveva pensato, con più creatività, il Comandante Lauro a Napoli negli Anni Cinquanta, regalando agli elettori una scarpa prima del voto e l’altra a elezione acquisita, stessa mancetta ma più furba: però, per carità, meglio averli che non averli quei soldi. Gutgeld santo subito, dunque, se davvero l’idea è sua. Se poi il contesto fosse tale da farceli anche spendere, sarebbe meglio. “Stiamo facendo tanto, anzi tantissimo”, dichiara oggi: “Basti pensare che la spesa corrente dal 2013 al 2016, come percentuale del Pil, è scesa dell’1,6%. In Germania quando Gerhard Schroeder fece le riforme a inizio anni 2000 in un triennio le spese scesero solo dello 0,6% del Pil”. Meno male che qualcuno è contento. Un qualcuno che le cose le sa. Fidiamoci, tanto che alternativa c’è?