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Home » Economia e Finanza » GEO-POLITICA/ Terrorismo, la “zona d’ombra” pericolosa per l’Europa

  • Economia e Finanza

GEO-POLITICA/ Terrorismo, la “zona d’ombra” pericolosa per l’Europa

La zona grigia di consenso silenzioso di cui gode il fondamentalismo islamico è enorme in Europa. MAURO BOTTARELLI ci mostra alcuni numeri eloquenti su questo

Mauro Bottarelli
Pubblicato 20 Aprile 2016
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Infophoto

Di Islam si parla ormai quotidianamente, soprattutto declinando la questione rispetto a tematiche di sicurezza interna per l’Europa, sia per quanto riguarda i cosiddetti foreign fighters, sia per lo stato di totale autogestione confessionale in cui versano molti quartieri delle principali capitali europee. Certo, gli attentati di Parigi prima e Bruxelles poi sono stati rivelatori assoluti di una realtà che in molti conoscevano e in altrettanti tacevano per quieto vivere, ma ora occorre studiare il fenomeno più a fondo, se vogliamo gestirlo e non subirlo o, meramente, cercare di reprimerlo tout court. 


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Pochi giorni fa è stato pubblicato un sondaggio dal titolo The 2016 Arab Youth Survey e la prima tabella a fondo pagina ci mostra graficizzati i risultati a cui si è giunti, interpellando giovani abitanti nel mondo arabo rispetto all’Isis e al progetto di Califfato. Come potete notare, la ragione principale che i giovani musulmani adducono come possibile motivazione di arruolamento nello Stato islamico è la cronica carenza di occupazione e posti di lavoro nella regione (24%), mentre il mantra della truppe di occupazione occidentali come ragione della protesta estrema raccoglie solo il 5% dei consensi. Molto interessante è però il dato finale, quello di fondo: il 25% degli interpellati non trova alcuna ragione plausibile per cui qualcuno possa decidere di unirsi alle fila dell’Isis. Di fatto, qualcosa che dovrebbe confortarci. Vedremo dopo perché non è così o, almeno, perché non è così in Europa. 


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Partiamo ora da un altro studio, ovvero quello compiuto dal Center for Economic Policy Research, il quale dimostra come non ci siano evidenze empiriche che confermino il fatto che un governo che opera tagli alla spesa abbia meno probabilità di essere rieletto rispetto a uno che, invece, spende molto denaro pubblico, ad esempio nel welfare. Ma al netto di questo, la ricerca mostra però dell’altro, ovvero che esiste una chiara correlazione tra Chaos (inteso come manifestazioni, scontro, scioperi e atti di protesta anche più violenti) e tagli alla spesa, come ci mostra la seconda tabella. Esiste un nesso diretto tra disordine sociale e austerity? Sì, ma lo studio arriva anche ad altro, ovvero al fatto che la base di ogni problema è l’eccesso di indebitamento dei vari governi. I quali, giunti al punto di non ritorno, sono forzatamente estromessi dai processi decisionali da organi sempre più transazionali che impongono ricette di austerity, le quali come conseguenza portano al caos. 


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Ora, contestualizziamo questo trend all’interno delle dinamiche dell’Islam europeo, con un occhio sempre vigile sui dati del sondaggio di cui vi ho parlato all’inizio dell’articolo. E cominciano dal lato più estremo della vicenda, ovvero i foreign fighters, cittadini europei che vanno a combattere nelle file del Califfato in Siria, Iraq e altrove, salvo poi tornare un patria. Radicalizzati, addestrati militarmente e, potenzialmente, pronti a continuare la propria guerra santa in casa. In un solo anno, dal settembre 2014 al settembre 2015, sono diventati 30mila in tutto il mondo, praticamente il doppio di quanti si contavano fino a quel momento tra le fila del Califfato di Abu Bakr al Bagdadi. Di questi, circa 4mila arrivano dall’Europa e la maggioranza, 2.838, è proveniente da quattro paesi: Francia, Germania, Gran Bretagna e Belgio, il quale fornisce il numero più alto rispetto alla sua popolazione. Il 30% di loro, stando alle verifiche incrociate su più dati, sarebbe rientrato nel Paese d’origine, mentre il 14% sarebbe morto sui campi di battaglia: sul totale dei combattenti, ben il 17% è composto da donne, mentre un 5% è minorenne. 

Ed ecco arrivare un primo punto di contatto con il sondaggio condotto tra i giovani del mondo arabo: l’85% di chi si arruola nelle fila dell’Isis, lo fa per ragioni economiche e solo tra il 6% e il 23% di chi parte verso la Siria e il nord dell’Iraq è mosso da una spinta religiosa. «I foreign fighters sono il più grave problema legato alla sicurezza che l’Europa dovrà affrontare nei prossimi dieci anni», sostiene Dick Schoof, coordinatore nazionale dell’anti-terrorismo olandese. E gli attentati perpetrati da cittadini europei su suolo europeo sono inevitabilmente destinati ad alimentare un circolo vizioso di radicalizzazione e risposte violente spontanee. 

Questa nuova generazione presenta un’età media decisamente bassa, è meno educata ai precetti religiosi e la sua azione si colloca in un contesto più simile a quello della delinquenza giovanile e delle gang di strada. La stragrande maggioranza ha precedenti penali per reati di piccola criminalità: furti, rapine, spaccio di droga. Si tratta per lo più di ragazzi che vivono alla periferia di una società europea percepita e vissuta come senza un futuro, tanto che la loro spinta ideale è verso la disperata ricerca di una causa da adottare. Qualunque essa sia, soprattutto se estrema. Per il politologo francese Oliver Roy, infatti, non si tratta di una «radicalizzazione dell’Islam, ma piuttosto di un’islamizzazione del radicalismo». 

Il linguaggio diretto e semplice dello Stato Islamico permette ai suoi seguaci l’individuazione precisa di un colpevole designato e una giustificazione a combattere ciò che più odiano, la mancata integrazione, la reale o percepita marginalizzazione da una società che li rifiuta, la disoccupazione, la povertà, il precariato, la ghetizzazione, spesso però anche auto-inflitta, come ci hanno mostrato le immagini del quartiere di Molenbeek a Bruxelles. In questo senso il desiderio di andare a combattere in Siria e in Iraq più che rispondere a un obbligo religioso sembra una risposta emotiva a un senso di ingiustizia percepito nel proprio Paese. 

Ed ecco il pericolo maggiore, più ancora dell’Isis in sé: la zona grigia di consenso silenzioso di cui gode il fondamentalismo islamico è enorme, un qualcosa che rende il paragone con il supporto indiretto a Brigate Rosse o Raf in ambienti scolastici o di lavoro negli anni Settanta e Ottanta qualcosa di residuale. 

Partiamo da un calcolo a spanne, tutt’altro che scientifico. Al mondo ci sono circa 1,6 miliardi di musulmani, poniamo quindi al 10% la quota di quelli favorevoli all’idea di Califfato e lotta contro gli infedeli: siamo a 160 milioni di persone. Di questi poniamo che solo il 10% sia pronto al jihad, quindi 16 milioni di potenziali terroristi. Di questi, solo il 10% è pronto a passare dalle parole ai fatti: sono 1,6 milioni di persone pronte a tutto nel nome della causa islamica. Non sono tantissimi. Ma neppure pochi. Vediamo ora qualche numero. Stando a un report della ComRes commissionato dalla Bbc, il 27% dei musulmani britannici ha simpatia per il commando che ha attaccato la sede di Charlie Hebdo a Parigi. Stando a un sondaggio Icm realizzato per Newsweek, il 16% dei musulmani francesi supporta apertamente l’Isis e il numero sale al 27% nella fascia 18-24 anni. Ecco spiegato perché in decine di scuole francesi il minuto di silenzio per le vittime di Charlie Hebdo fu interrotto da studenti islamici che protestavano. 

E veniamo al Belgio, Paese la cui vera natura l’abbiamo conosciuta solo dopo gli attentati a Bruxelles. “Voices From the Blogs” ha compiuto uno studio monitorando i messaggi correlati alle azioni dell’Isis su vari social network come Twitter, Facebook e altro. I commenti più entusiasti arrivavano dal Qatar con il 47%, poi il Pakistan con il 35% e al terzo posto c’era proprio il Belgio con il 31% dei tweets riguardanti lo Stato islamico che avevano carattere di apprezzamento. Più della Libia (24%), l’Oman (25%), la Giordania (19%), l’Arabia Saudita (20%) e l’Iraq (20%). Seguono, a livello europeo, Regno Unito con il 24%, Spagna con il 21% e Francia con il 20%. 

Di più, in Gran Bretagna un musulmano su cinque ha simpatia per il Califfato e, stando a una recente statistica, i musulmani britannici si arruolano percentualmente più nell’Isis che nell’esercito di Sua Maestà. In Olanda, un sondaggio condotto dall’agenzia demoscopica Motivaction ha dimostrato che l’80% dei turchi lì residenti trova che l’Isis “non faccia nulla di sbagliato”, mentre l’ultimo sondaggio Pew dimostra come tra i giovani musulmani europei il supporto per i kamikaze sia al 22% in Germania, al 29% in Spagna, al 35% in Gran Bretagna e addirittura al 42% in Francia. Questo, senza contare il livello di supporto di cui l’Isis gode nel mondo arabo, ovvero nel bacino potenziale di arrivo delle migliaia e migliaia di migranti che Soros ci vorrebbe imporre come medicina alla crisi dell’Europa. 

Sono stati quattro i sondaggi a maggior rilevanza di campionatura: quello del marzo 2015 condotto dall’Iraqi Independent Institute for Administration and Civil Society Studies, quello del novembre 2014 a cura della Zogby Research Services, quello sempre del novembre 2014 dell’Arab Center for Research and Policy Studies e quello dell’ottobre 2014 condotta dal Fikra Forum. Risultato? Oltre 42 milioni di persone nel mondo arabo simpatizzano con l’Isis. Di più, dopo l’attacco a Charlie Hebdo, Al Jazeera condusse un sondaggio in cui chiedeva se l’interpellato supportasse le vittorie dell’Isis. Risultato? 81% di sì. Al culmine della sua attività terroristica, nel 1977, il gruppo Baader-Meinhof della Raf in Germania poteva contare su 4,7 milioni di simpatizzati, molti dei quali studenti universitari. 

La zona d’ombra del radicalismo islamico, oggi in Europa, è enormemente maggiore. E va studiata con attenzione, alternando intelligence e repressione a risoluzione delle cause sul terreno sociale e preventivo. Altrimenti, come ci mostrano i molti esempi seguiti all’11 settembre, con le sole armi della guerra il terrorismo attecchisce e si nutre del sangue versato, non viene estirpato. 


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