Vi ho sempre detto che la realtà non è mai come appare e che, soprattutto, i media o nascondono le notizie o ve le offrono come meglio credono, garantendovi una visione unipolare che è quella preferita e più comoda per i manovratori (i quali, spesso, se non sono politici che “governano” i media, sono imprenditori che li posseggono direttamente). Volete qualche esempio? Ve ne offro quattro, tutti di stretta attinenza con l’attualità, sia politica che economica che di cronaca.
Partiamo dal Brasile, dove il processo di impeachment contro Dilma Rousseff l’altro giorno ha compiuto un passo decisivo. La Camera ha infatti approvato la messa in stato di accusa della presidente con una larga maggioranza: servivano i due terzi, 342 voti, e il fronte d’opposizione ne ha messi insieme ben 367, oltre le aspettative. In pratica tutti i partiti della maggioranza hanno abbandonato Dilma tranne il suo, il Pt, e alcuni alleati tradizionali. Ora il processo deve essere ratificato dal Senato, ma si tratta di una formalità, perché la maggioranza semplice che viene richiesta è praticamente certa. Poi la Rousseff dovrà lasciare il palazzo del Planalto, la sede della presidenza della Repubblica e al suo posto arriverà ad interim il suo attuale vice, Michel Temer, che formerà un nuovo governo. La legge prevede, però, che l’allontanamento sia temporaneo, per un massimo di sei mesi, mentre in Senato verrà instaurato il processo vero e proprio. Già dalle prossime ore cresceranno le pressioni affinché la Rousseff presenti le dimissioni definitive, così che la partita si chiuda in modo indolore, invece di trascinarsi per mesi.
Fin qui, la cronaca politica che conoscete. Ciò che non vi dicono i media, però, sono le reali condizioni di un Paese che fra meno di tre mesi dovrà ospitare le Olimpiadi di Rio, tra corsi d’acqua totalmente infetti, l’emergenza Zika e un’economia che è praticamente al collasso. E sapete cos’ha detto, nel silenzio generale dei grandi media, l’altro giorno il governatore dello Stato di San Paolo, Geraldo Alckmin? «Rio de Janeiro è vicina al collasso sociale», tanto che non sono ancora state pagate le pensioni del mese di marzo. Ma non basta, il governo federale brasiliano ha dovuto ammettere che è in forte difficoltà nel raggiungere i suoi obiettivi fiscali, tanto che il portavoce Barbosa ha dichiarato che «il governo è conscio e molto preoccupato della situazione». Senza contare il carico debitorio dei due Stati più grandi: Rio de Janeiro siede infatti su qualcosa come 52 miliardi, mentre Sao Paolo addirittura di 224 miliardi di real.
Direte voi, accidenti, la Borsa starà crollando? E invece no, come ci mostra il grafico a fondo pagina, il quale ci dimostra come, al netto delle accuse alla Rousseff e al suo clan, pare chiaro il fatto che sia in atto un piano di destabilizzazione del Paese al fine di comprarsi a prezzi di saldo quelli che sono veri e propri gioielli della prima economia del Sud America. Ma lo sapete, una bella Tangentopoli fa vendere i giornali ed è molto telegenica, raccontare tutta la realtà invece può risultare noioso. E, a volte, controproducente per gli interessi di qualcuno.
Andiamo ora avanti con il secondo esempio, il quale ci mantiene in area Sud America, visto che si tratta dell’Argentina. Esattamente come la Grecia, che due anni fa tornò sul mercato con un’emissione per 2,5 miliardi di euro in bond a 5 anni e con rendimento del 5%, anche Buenos Aires dopo 15 anni di esilio dai mercati del finanziamento è pronta a tornare con un’emissione multi-miliardaria di debito che vede gli investitori già oggi in fila. Il progetto sarebbe quello di un pricing iniziale che vedrebbe il nuovo bond a 10 anni garantire un rendimento dell’8%, mentre le scadenze più brevi a 3 e 5 anni avrebbero rispettivamente yield del 6,75% e 7,5%. Per il bond a 30 anni, il pricing sarebbe all’8,85% di rendimento, stando a quanto riportato dal Financial Times. Parliamo della stessa nazione che nel 2001 fece default su 100 miliardi di dollari di debito, in piena recessione e che ha fatto nuovamente default nel 2014, come conseguenza della disputa legale nei confronti dei vecchi creditori. Ma non importa, perché l’elezione del nuovo presidente Maurcio Macri – sostenuto fortemente dalla potente massoneria del Paese – pare aver portato una ventata di fiducia e ottimismo sui mercati: tradotto, finalmente, in un mondo a tassi zero, c’è un asset che offre un rendimento più che interessante, proprio come nel caso greco del 2014.
Per Anthony Simond, analista di investimento alla Aberdeen Asset Management, «l’Argentina ha uno dei team economici migliori di tutti i mercati emergenti e hanno la potenzialità di trasformare l’economia. Certo, non sono ancora stati messi alla prova, quindi ora il Paese deve pagare parecchio per finanziarsi, ma siamo positivi». D’altronde, parcheggiare denaro, garantendosi un coupon del 7,5% non fa schifo di questi tempi, anzi. Casualmente, questo entusiasmo ricalca quello che circondò l’emissione greca di due anni fa. Ed esattamente come in quel caso, la domanda preliminare per la carta sovrana argentina è già oggi alle stelle, visto che l’order book ha già raggiunto qualcosa come 40 miliardi di dollari di controvalore, ovvero è sovra-sottoscritto di tre volte. E attenzione, perché per creare ulteriore attrattiva e aspettativa, il ministro delle Finanze argentino, Luis Caputo, ha detto che questa sarà l’unica emissione di debito del Paese fino al 2017, questo mentre gli investitori già scommettevano su uno stock superiore ai 18 miliardi annunciati.
Grecia 2.0? Il grafico a fondo pagina ci dice che se così fosse – e i precedenti e le somiglianze ci sono tutte – allora sarebbe il caso di attendersi un bel -25% del prezzo di emissione del bond, visto che dopo due anni il bond ellenico che prezzava un rendimento del 5% oggi è già sopra il 10%, con un valore di 86 centesimi sul dollaro. Sicuramente, prima di chiudere l’order book, il ministero delle Finanze argentino aspetterà che le richieste di sottoscrizione superino quota 50 miliardi di dollari, ma state tranquilli: tra un anno, forse meno, sapremo se il destino di quei bond sarà simile a quello ellenico. Occhio, quindi, se qualche promotore zelante cercherà di appiopparvelo, in perfetto stile Banca Etruria.
E veniamo ora al terzo esempio, il quale parte da un dato: lunedì l’indice Dow Jones ha chiuso sopra quota 18mila punti per la prima volta dallo scorso luglio. Insomma, un mercato pazzesco, peccato che ci sia qualcosa che non va. Per l’esattezza, due cose. Primo, l’altro giorno Bank of America-Merrill Lynch ha reso noto il suo report settimanale e abbiamo scoperto che i suoi clienti, dagli hedge fund ai retail, sono stati venditori netti di equities per la dodicesima settimana di fila, questa volta per un controvalore di 1,36 miliardi di dollari. Quindi, se la cosiddetta smart moneyvende, chi compra? Due categorie, le aziende che si indebitano per operare buybacks di proprie azioni, almeno si ottengono i target prices e scattano i bonus e il parco buoi, quello a cui stanno vendendo la balla del mercato in rally sostenuto dalla ripresa e dai fondamentali.
La seconda criticità è rappresentata dl secondo grafico, il quale ci mostra come negli Usa i default da inizio anno abbiano già superato il totale del 2009, questo nonostante il mercato azionario sia vicino ai massimi storici. E il problema non è solo per i detentori di obbligazioni di quelle aziende, visto che stiamo parlando di 46 aziende andate in default in meno di quattro mesi (37 delle quali con base negli Usa), stando a dati di S&P Ratings Services. E se le ultime in ordine di tempo sono state l’azienda chimica Vertellus Specialties, il produttore di acciaio Cliffs Natural e il produttore di articoli da surf Pacific Sunwear, è il comparto energetico a fare la parte del leone, visto che le quotazioni del greggio sempre basse hanno ridotto i margini all’osso e portato l’indebitamento a livelli non più sostenibili. Gli ultimi del comparto a gettare la spugna sono stati Peabody Energy e XXI Energy, portando i default mensili di obbligazioni spazzatura a quota 14 miliardi di dollari, record dal 2014 secondo i calcoli di Fitch.
Ma anche il mese scorso il bollettino di guerra delle aziende americane legate allo shale era stato pesante, con sette aziende fallite e il conseguente default di junk bond per 12,3 miliardi di dollari, oltre a 4,1 miliardi di leveraged loans. Se ci allarghiamo al primo trimestre di quest’anno, le compagnie finite in default sono state 21 (contro le 8 dello stesso periodo del 2015) con un debito complessivo di 31,4 miliardi di dollari (più del quintuplo rispetto ai 4,8 miliardi del primo trimestre 2015). Siamo ancora lontani dai paurosi livelli post Lehman, con i 76,6 miliardi di dollari finiti in default nel primo trimestre 2009 o i 55 miliardi del secondo trimestre 2009, ma la direzione direzione purtroppo è quella. Tracce nei telegiornali o sulla grande stampa?
E veniamo al quarto e ultimo esempio, direttamente legato alla cronaca dell’emergenza immigrazione. Sapete infatti chi sta vivendo, proprio in queste ore, la sua “rivoluzione colorata”, con tanto di attacchi al palazzo presidenziale a colpi di pietre e bottiglie molotov? La piccola Macedonia, 2 milioni di abitanti, ma strategica nella rotta balcanica dei migranti che cercano approdo in Europa: e sapete chi sta fomentando la piazza? I soliti agenti destabilizzanti, in questo caso quelli di Otpor (la versione serba della Usaid di George Soros, quella che organizza a comando le “rivoluzioni colorate” nel mondo già attiva nelle manifestazioni di piazza che portarono alla caduta di Slobodan Milosevic), i quali sono già sul posto e hanno trasformato le proteste spontanee in scontri violenti. Ma a dare man forte ai soliti agenti prezzolati del regime change ci sono tutti: Stati Uniti, Ue, Nato e i trafficanti di droga dell’Uck, l’ex esercito kosovaro che combatteva contro le truppe paramilitari serbe, finanziato da Cia e MI6 britannico e che ora funge da cane da guardia Nato sull’intera provincia serba a maggioranza albanese.
E perché proprio ora? Semplice, serve un regime change per riaprire il transito dei profughi, bloccato dopo che a febbraio altri Paesi dell’area, tra cui l’Ungheria, hanno bloccato gli ingressi e ripristinato i controlli. Da qui la chiusura del confine con la Grecia, dove migliaia di immigranti illegali ora si trovano bloccati: ed ecco entrare in scena il famoso campo di Idomeni, meta prediletta dei media lacrimevoli di tutto il mondo e teatro, qualche giorno fa, di un tentato assalto di centinaia di immigrati contro i reticolati macedoni. Un attacco così spontaneo e frutto della disperazione da essere stato organizzato attraverso un misterioso volantinaggio, a opera pare di “volontari” e ripreso in diretta dalle tv di tutto il mondo. E tanto per rendersi utile, l’Ue ha ben pensato di interferire pesantemente nelle scelte del Paese, prima facendo indire elezioni per il 5 giugno prossimo, salvo poi, la settimana scorsa, farle annullare. Perché? Semplice, le possibilità di vittoria dell’opposizione colorata sponsorizzata da Soros erano pressoché a zero, quindi meglio evitare non solo figuracce ma anche un consolidamento democratico del governo in carica, bollato ovviamente di simpatie filo-Putin e messo nel mirino per aver concesso l’amnistia a una quindicina di politici – anche dell’opposizione – per uno scandalo di intercettazioni telefoniche.
E quale sarebbe ora l’intenzione dei destabilizzatori di professione? Far cadere il governo per riorientare i flussi di migranti verso ovest, incaricando le forze Nato in Kosovo e l’Uck di trasferirli dalla frontiera macedone a quella albanese, per poi assicurare il loro trasporto via mare dall’Albania all’Italia. Capito perché l’Austria, uno dei paesi che con la decisione di bloccare la via balcanica ha obbligato la Macedonia a chiudere il suo confine con la Grecia, ha costruito d’urgenza la barriera anti-profughi al Brennero? Perché stiamo per essere invasi, da tutti i lati, con somma gioia di papa Francesco, immagino. Ma queste notizie, state tranquilli, non ve le racconterà il telegiornale.