SPY FINANZA/ Grecia e Spagna, le nuove mine per l’Europa

- Mauro Bottarelli

La situazione greca torna a farsi calda e la Spagna torna al voto subito dopo il referendum della Gran Bretagna. Il momento non è facile per l'Europa, dice MAURO BOTTARELLI

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Cosa vi avevo detto che prima dell’arrivo dell’estate la questione greca, la stessa che le autorità europee hanno dichiarato “risolta” almeno quattro volte dal 2010 a oggi, sarebbe riesplosa? E non serve né la palla di vetro, né un talento particolare: se operi una partita di giro in stile schema Ponzi, è ovvio che il Paese non solo non riparte, ma muore un pezzo alla volta, mentre stende il braccio in attesa della tranche di aiuti che gli garantirà ancora qualche mese di solvibilità (nei confronti di banche, Bce e Fmi, non dei suoi cittadini). 

Come sapete non sono stato tenero con i greci e con le loro responsabilità, ma ora si sta davvero esagerando e una delle dimostrazioni di come l’Ue veda Atene come un peso, un qualcosa da gestire con fare da vassallo, è stata l’assenza di Alexis Tsipras al vertice di Hannover di lunedì scorso: se, come ci hanno detto, i temi erano lotta al terrorismo e gestione dei flussi migratori, perché il Paese in prima linea per antonomasia non è stato invitato? Semplice, perché alla Grecia chiediamo gli hot-spot e la gestione dei profughi sul proprio territorio, ma mentre ricopriamo di soldi i ricattatori turchi, ad Atene sappiamo soltanto chiedere austerity e pagamenti di interessi che tutti quanti sanno che la Grecia non potrà mai onorare. Serve una moratoria seria, lo dico da mesi ormai. 

Ieri, poi, l’ultimo colpo basso. Atene e i creditori non sono riusciti ad arrivare a un accordo sui tagli necessari a sbloccare la nuova tranche di aiuti nell’ambito del piano di salvataggio da 86 miliardi e l’Eurogruppo calendarizzato per oggi «non ci sarà», ha fatto sapere il presidente, Jeroen Dijsselbloem. Alexis Tsipras ha chiesto un summit Ue per provare a sbloccare la situazione e mettere in mora l’ex Troika, ma si è visto respingere la proposta al mittente: «Sono contrario», avrebbe tagliato corto il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, mentre per Donald Tusk «servono approfondimenti a livello ministeriale. C’è ancora lavoro da fare e mi aspetto un Eurogruppo in pochi giorni e mi auguro che non si creino nuove incertezze». Balle, come al solito. L’obiettivo del premier ellenico era quello di provare a convincere i partner europei che la Grecia ha mantenuto tutti gli impegni presi la scorsa estate con la firma del nuovo memorandum e che il vero ostacolo all’intesa finale è la pretesa dei creditori (Fmi in testa) di imporre nuove misure d’austerità non previste dagli accordi. E questa volta dare del tutto torto ad Alexis Tsipras è davvero complicato. 

Lo stallo di queste ore in effetti è figlio dell’improvviso e inspiegabile (almeno ricorrendo alla buona fede) irrigidimento di Washington, con l’istituto guidato da Christine Lagarde convinto che i nuovi tagli messi in cantiere dall’esecutivo ellenico (3 miliardi di euro tra riforma fiscale e quella delle pensioni) non bastino a rispettare gli obiettivi fissati dal piano, un avanzo primario del 3,5% nel 2018. E quindi cosa ha fatto il Fmi? Ha chiesto – ottenendo ovviamente l’appoggio da cagnolino scodinzolante di Bruxelles – che il Parlamento approvi da subito altri interventi pari al 2% del Pil (altri 3 miliardi circa) da attivare automaticamente nel caso non si arrivasse al target. Ed ecco il più classico dei cul-de-sac: il ministro delle finanze greco, Euclis Tsakalotos, ha detto che una clausola di salvaguardia di questo tipo è impossibile da votare, perché incostituzionale e in alternativa ha garantito l’impegno del suo Paese ad attivare tagli automatici nel momento in cui l’Eurostat certificasse scostamenti significativi dagli obiettivi. I creditori hanno detto no e l’ennesima impasse è servita. 

Inoltre, quanto sta accadendo e l’irrigidimento del Fmi fanno propendere per una scelta tutta politica e una strategia ben delineata. Fu infatti Wikileaks a rendere note le intercettazioni tra due alti funzionari del Fondo monetario e il tenore del discorso era questo: «Bisogna portare la Grecia sull’orlo del baratro allungando i negoziati fino a luglio, perché solo quando sono con le spalle al muro fanno concessioni», diceva Poul Thomsen, responsabile europeo del Fmi, ricordando con perfidia chirurgica che in quel mese Atene deve pagare 3,5 miliardi alla Bce, cifra che non sarebbe in grado di rimborsare. Peccato che i soldi, Atene potrebbe finirli molto prima. 

Stando a quanto scritto dal quotidiano Kathimerini, infatti, la liquidità nelle casse dello Stato potrebbe finire a metà maggio. Finora l’esecutivo ha pagato regolarmente pensioni e stipendi, ma ha risparmiato su tutto il resto, compreso i pagamenti alle strutture sanitarie. Le quali, ora, sono diventate dei veri e propri bancomat, alla faccia della salute dei cittadini: il 21 aprile, infatti, il ministero della Salute ha inviato agli ospedali una lettera nella quale chiede di spostare tutta la loro liquidità su un conto speciale della Banca centrale. È la stessa strategia utilizzata lo scorso anno tra maggio e giugno, quando – con i negoziati con i creditori in stallo e con il paese sull’orlo del default – Atene ha obbligato tutte le realtà statali a girare i soldi in cassa su un conto centralizzato, utilizzato poi come garanzia per raccogliere nuovi fondi a brevissimo termine sul mercato obbligazionario e per tenere in piedi la macchina pubblica. Come vedete, è uno schema Ponzi in tutto e per tutto. 

Per Klaus Regling, il numero uno del Meccanismo europeo di stabilità, «la situazione è preoccupante. C’è il serio rischio che il governo sia costretto di nuovo a indebitarsi sul mercato domestico». Ma non basta, perché a fine marzo sempre la Banca centrale greca – di fatto una succursale di Bruxelles – ha ordinato alle banche commerciali di annotare i dati personali e il record storico delle transazioni di tutti i clienti che si presentino allo sportello per cambiare banconote da 500 con pezzi più piccoli. Non solo, l’obbligo si estende anche a un’opera di controllo incrociato di altre transazioni compiute in precedenza. Il motivo? Ufficialmente, combattere il riciclaggio di denaro e l’evasione fiscale, ma di fatto una forma di controllo totalmente incostituzionale e una violazione delle libertà civili fondamentali: in nome di cosa? Del fatto che la Grecia è la nazione con il più alto tasso di banconote circolanti, un ammontare pari al 25% del Pil quando la media Ue è al di sotto del 10%. Ovviamente, i greci hanno tanto contante perché hanno ritirato i soldi dalle banche per evitare di perderli in stile, Cipro ma state certi che ora la scusa del contante come mezzo di finanziamento dei terroristi diverrà una priorità. Tanto che prevedo un’accelerazione da parte della Bce del ritiro delle banconote da 500 euro dalla circolazione, già prima dell’estate. 

Ma se la Grecia piange, certamente la Spagna non ride. Dopo l’ultimo round di consultazioni finito nel nulla, martedì sera Re Felipe VI ha sancito con un comunicato che «non esiste un candidato che abbia il sostegno necessario per avere la fiducia in Parlamento». Detto fatto, il Paese torna alle urne il 26 giugno. Data molto pericolosa, perché cade soltanto tre giorni dopo il referendum sulla Brexit nel Regno Unito, quindi in clima di forte tensione sui mercati e, in caso di addio di Londra all’Ue, di potenziali scossoni veri e propri, ciò che non serve alla Spagna e al suo ancora fragile sistema bancario. Senza contare l’effetto psicologico che un abbandono dell’Ue da parte della Gran Bretagna potrebbe avere sulle due province secessioniste del Paese, la Catalogna e i Paesi Baschi. 

Detto fatto, però, non c’è alternativa al nuovo ricorso alle urne. Il primo ministro uscente, Mariano Rajoy, è stato l’ultimo tra i leader politici ad incontrare il sovrano alla Zarzuela, annunciando per la terza volta consecutiva di non avere i voti necessari per fare un governo, anche se il suo partito aveva vinto le elezioni lo scorso 20 dicembre. 

In precedenza, il monarca aveva incontrato il leader del Psoe, Pedro Sanchez, che lo aveva informato che anche di una proposta in extremis fatta martedì mattina non aveva raccolto il sostegno necessario. E ancora una volta il socialista ha accusato in particolare il leader della formazione post-indignados Podemos, Pablo Iglesias, e il premier uscente Rajoy, di non avere voluto formare un governo di coalizione, per la loro mancanza di volontà. Impassetotale, ma una certezza prende piede: dopo trent’anni di bipolarismo pressoché perfetto e monopolistico, la diarchia Pp-Psoe è finita, visto che alle urne lo scorso dicembre insieme hanno ottenuto il numero di consensi combinati più basso dagli anni Ottanta, in piena offensiva terroristica dell’Eta. 

E ora guardate il primo grafico a fondo pagina, ci mostra come il mercato obbligazionario sovrano, nonostante gli acquisti onnivori della Bce, stia già prezzando una nuova instabilità nel Paese e, soprattutto, il rischio che la questione catalana mini alle fondamenta la stabilità del sistema politico spagnolo, già di per sé estremamente frammentato. Già, perché giova ricordare come a novembre il Parlamento catalano abbia votato una risoluzione per dare il via alla fase preparatoria di una repubblica indipendente. L’ex premier spagnolo, Mariano Rajoy, fu tassativo: «La Catalogna non si separerà da nulla». Cinque mesi abbondanti e un’elezione generale dopo, la scena politica spagnola però è il totale disastro che vi ho descritto e che ha costretto il Re a rimandare il Paese alle urne. Un sondaggio di fine marzo di Metroscopia pubblicato da El Pais faceva notare che i Popolari erano al 26%, i Socialisti al 23%, Ciudadanos al 19,5% e Podemos al 16,8%. Quindi, anche tornare al voto potrebbe non servire a nulla: ingovernabilità totale, a meno di accordi sottobanco, magari imposti dall’onnipresente Ue che non intende avere due rogne da gestire (Grecia e Spagna), quando c’è il Brexit da scongiurare, in piena stagione di sbarchi e con il rischio libico incombente. 

Peccato che nel silenzio generale, la Catalogna stia dando vita a un gioco parecchio pericoloso. Eh sì, perché nonostante Draghi stia sopprimendo artificialmente lo spread sovrano spagnolo, questo non solo sta risalendo, ma un default regionale sarebbe un dramma per Madrid. E cosa hanno fatto a Barcellona? Hanno avanzato un piano di estensione della scadenza su 1,8 miliardi debito catalano, atto che però necessita del via libera di Madrid dopo il salvataggio del 2012 e da quelle parti hanno immediatamente puntato i piedi contro questa ipotesi. E siccome la Catalogna ha già mancato i pagamenti su almeno due prestiti bancari, ecco che Barcellona vuole che Madrid fornisca il denaro necessario per i pagamenti che andranno a scadenza quest’anno sotto forma di aiuto. E siccome questa è l’ultima cosa che un detentore obbligazionario vuole sentirsi dire, ecco cosa è accaduto sul finire di marzo, come ci mostra il secondo grafico. Ma non solo, visto che stando a El Mundo e a fonti governative, Standard&Poor’s non esiterebbe a mettere la Catalogna in stato di default selettivo se la situazione non si sbloccasse in tempi brevi. 

Quindi, la Spagna ha due scelte: o dare il via libera all’approvazione dell’estensione delle scadenze su quel debito oppure pagare lei. Senza contare che tra aprile e maggio Dbrs, l’agenzia di rating canadese grazie alla quale il debito del Portogallo ancora beneficia dell’investment grade, metterà in revisione proprio il rating lusitano. Se per caso diventerà junk, addio acquisti della Bce e nuova crisi immediata per anche per Lisbona. 

Tanti auguri Europa, nei hai davvero bisogno stavolta. 

 







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