Ormai è tutto colpa del Brexit e delle paure che questo infonde sui mercati. Piove? È colpa del Brexit, anche perché lassù nuvole e tuoni sono di casa. Crolla Milano? Colpa del Brexit. Balle, se il FTSE Mib va giù è perché il nostro sistema bancario soffre ed è fragile. È dell’altro giorno, infatti, la notizia che ad aprile sono tornate a salire le sofferenze bancarie: in un anno le rate non pagate dei finanziamenti sono cresciute di 6,7 miliardi di euro arrivando a 198 miliardi (+2%) e a pesare è soprattutto il peso delle sofferenze delle imprese, salite di 4 miliardi a 140,7 miliardi (+3%), mentre quelle relative alle famiglie ammontano a 37 miliardi e sono cresciute di quasi 2 miliardi. Le sofferenze lorde valgono 198 miliardi, mentre quelle nette sono cresciute di 1,6 miliardi (+2 miliardi) a quasi 84 miliardi.
Questi i dati principali del rapporto mensile sul credito realizzato dal Centro studi di Unimpresa, stando al quale i prestiti al settore privato sono complessivamente saliti di quasi 5 miliardi (+0,34%), dai 1.405 miliardi di aprile 2015 ai 1.409 miliardi di aprile 2016: a spingere la ripresina dei finanziamenti bancari è il credito al consumo, cresciuto di quasi 22 miliardi (+35%), e il ramo mutui casa, aumentato di oltre 4 miliardi (+1%); per le imprese, invece, si è registrata una diminuzione delle erogazioni di quasi 16 miliardi (-2%), da 806 miliardi a 790 miliardi, causata dalla discesa dei prestiti a breve di 16 miliardi e di quelli di lungo periodo di 15 miliardi, mentre i finanziamenti di medio periodo sono saliti di 15 miliardi. Ecco perché a Milano la Borsa sbanda ormai da giorni e giorni, salvo il rimbalzo del gatto morto e il timore del Brexit, fondato ma non unico catalizzatore.
Ma c’è dell’altro per cui non festeggiare e lo certifica nientemeno che la Bce nel suo bollettino: i tassi negativi fanno male più alla formica (le famiglie italiane) che alla cicala (il resto dell’Europa), visto che in media i proventi da interessi delle famiglie sono scesi del 3,2% dal 2008. L’Istituto di Francoforte scrive che dalla fine del 2008 le famiglie italiane hanno visto scendere in media il tasso di guadagno di almeno il doppio rispetto ai tassi sui pagamenti, «con un impatto negativo sui ricavi complessivi netti delle famiglie». Per la Bce, la ragione è che gli italiani detengono un largo ammontare di asset fruttiferi (gli economisti citano depositi, obbligazioni, titoli di Stato) e sono relativamente meno indebitati rispetto agli altri Paesi dell’Eurozona. In Germania e Francia il crollo dei tassi di guadagno e dei pagamenti è stato invece equilibrato, ovvero i bassi tassi d’interesse hanno avuto un effetto minimo sul ricavi netti delle famiglie. In Spagna, i nuclei familiari hanno addirittura beneficiato dei bassi tassi, sia a causa degli alti debiti contratti che per l’alta percentuale di prestiti legati ai tassi del mercato monetario, che si muove in linea con i tassi d’interesse della Bce.
Nei mesi scorsi, diversi esponenti politici tedeschi avevano alzato la voce contro la politica della Bce sui tassi di interesse negativi, che a loro parere rischia di indebolire i tedeschi. Di certo, invece, si sa che – guarda caso – indebolisce le famiglie italiane. Ma non importa, c’è il Qe da portare avanti, queste sono quisquilie. Proprio la Banca centrale europea ha infatti reso noto di aver acquistato 348 milioni di euro di corporate bond tra l’8 e il 10 giugno scorso, portando gli economisti di Intesa SanPaolo a dire che «se il ritmo di acquisto giornaliero fosse mantenuto, la Bce arriverebbe ad acquistare circa 4 miliardi di euro di corporate bond al mese». Insomma, in due giorni poco meno di 350 milioni di euro di bond aziendali non finanziari sul mercato secondario, andando a pescare tra i nomi più liquidi come Engie, Telecom Italia, Telefonica, Anheuser-Busch InBev NV, Siemens, Assicurazioni Generali, Renault SA e Rwe AG. Come ricorderete, nell’articolo che ho dedicato a questo tema la scorsa settimana, per quasi tutti gli analisti la quota di 4 miliardi era quella necessaria a non far perdere fiducia al mercato, soprattutto in questo momento in cui lo spauracchio Brexit spinge chi investe proprio verso bond e oro.
Tutto bene, quindi? Non proprio. O, almeno, non del tutto. La cosa preoccupante, infatti, è che quegli acquisti con il lanternino, quasi in modalità cherry picking obbligato e forzato, mostrano plasticamente quanto sia illiquido il mercato obbligazionario corporate europeo, tanto che stando a dati di Trax, nei primi due giorni di acquisti nel programma Cspp, il 19% dell’attività sui bond corporate è stata riconducibile alla Bce. Il tutto in un contesto più generale che nel 2015 ha visto l’acquisto di bond corporate pesare per il 12% di tutta l’attività sull’obbligazionario, percentuale salita nella prima metà di quest’anno già al 14%. Se questi dati sono accurati – e non c’è motivo di non crederlo, visto che Trax processa il 65% di tutte le transazioni su bond – significa che l’intero mercato secondario dell’obbligazionario europeo è diventato una landa desolata di transazioni reali, con un trade totale implicito di soli 1,8 miliardi di euro (se prendiamo appunto per buono che i 348 milioni acquistati dalla Bce rappresentino il 19% del totale), questo nonostante gli investitori sappiano che la Bce sta operando e continuerà a operare back-stop. Ma significa anche che per la Bce sarà difficile tenere fede alle sue promesse riguardo durata del programma e controvalore mensile degli acquisti, visto che nei prossimi mesi potrebbero ulteriormente scarseggiare i venditori di corporate bonds, soprattutto se l’azionario dovesse andare in fase ribassista strutturale.
E il grafico qui sotto ci dice che la price action comincia a scontare guai in vista. Anche perché, nonostante la grande stampa si sia guardata bene dal farlo notare, di fatto Mario Draghi sta già oggi comprando titoli al limite del suo mandato a livello di rating e questo rischia di pesare sulle scelte future in caso di scarsità di securities esigibili. Ovvero, cambio in corsa del mandato e acquisto anche di junk bonds. Un qualcosa che il mercato non prezzerebbe certamente come positivo. Anzi, sarebbe la prova che si è cominciato a raschiare il barile.
E la riprova ce l’abbiamo in casa, ovvero Telecom Italia, la quale ha infatti rating speculativo, cioè non investment grade come richiesto da mandato della Bce, per due agenzie di rating su tre, ovvero per Moody’s Investors Service e Standard&Poor’s Global Ratings. Di più, i bond di Telecom fanno parte del Bank of America Merrill Lynch’s Euro High Yield Index, mentre i suoi credit default swaps fanno parte del Markit iTraxx Crossover Index, il quale è collegato ad aziende con i rating più soggetti a denominazione junk. Per le due agenzie di rating prima citate, Telecom è rispettivamente a Ba1 e BB+ dal 2013 e resta in investment grade solo per Fitch, la quale però non solo garantisce l’IG al nostro colosso delle telecomunicazioni solo per un gradino, ma il novembre scorso ha messo in revisione l’outlook sul gruppo, passando da stabile a negativo.
Per Alex Everton, fund manager a Parigi per Oddo Meriten Asset Management, «Telecom Italia è fermamente al punto più debole dello spettro di acquisti possibili per la Bce». Insomma, Telecom può piazzare il suo debito alla Bce solo grazie alla valutazione di Fitch. E cosa succederebbe se quest’ultima operasse un downgrade sul rating di Telecom Italia, portandola in status di junk per tutte e tre le agenzie? Niente, nel meraviglioso mondo delle Banche centrali e del mercato drogato, non accadrebbe nulla. E sapete perché? Perché la Bce stessa, la scorsa settimana, ha detto chiaro e tondo che i bond acquistati possono essere tenuti in detenzione anche se nel frattempo perdono il loro rating investment-grade: della serie, mettiamo le mani avanti.
Ironicamente, poi, questo sta avvenendo in contemporanea con la nuova crociata di Mario Draghi affinché i governi accelerino il processo di riforme, quasi a voler rispondere alle critiche del capo economista di Deutsche Bank, David Folkerts-Landau, il quale ha affondato la lama nel ventre del Qe: «Auto-eleggendosi salvatore di ultima istanza dell’eurozona con il whatever it takes, la Bce ha permesso ai politici di starsene seduti con le mani in mano e non fare nulla rispetto a consolidamento fiscale e aumento della crescita». Avete capito in che mondo ci fa vivere la ricetta di Draghi? In uno in cui chi risparmia viene punito dai tassi negativi, mentre gli speculatori ricevono un premio. Un mondo dove aziende disfunzionali sopravvivono, mentre quelle sane hanno troppa paura a investire. Un mondo dove per i governi è sparito non solo il costo del finanziamento, infatti i debiti pubblici sono tutti in crescita ma anche il premio di rischio sugli spread, visto che la Bce lo ha fatto artificialmente sparire dal mercato dei bond sovrani con i suoi acquisti.
Le riforme? C’è tempo: prima il Brexit, tre giorni dopo il voto politico in Spagna che sappiamo già finirà in una nuova impasse, poi il referendum in Italia. Finché c’è la Bce che compra, chi lo fa fare ai politici di rischiare la ghirba con le riforme? E attenzione, perché a oggi già il 15% di tutti i corporate bonds dell’eurozona porta rendimenti negativi. Se parte la sell-off, sarà diluvio. E allora Draghi dovrà comprare la luna.