Come la bocca di una murena, l’Unione europea è qualcosa dove più entri meno puoi uscirne, se dovessi a un tratto decidere di farlo. E la determinazione – in sé giusta – con cui il governo Renzi sta negoziando con Bruxelles una soluzione straordinaria per la crisi delle nostre banche è destinata a un qualche magari parziale ma consistente successo proprio per questo: sarà per l’Italia un altro, decisivo passo verso la rinuncia a quella sovranità nazionale che prelude al dominio della “Troika” che già governa la Grecia. Quindi è prevedibile che le istanze italiane verranno alla fine accolte, con molto sussiego di facciata, e per il nostro Paese sarà un bene e, insieme, una capitolazione: ai partner europei, prima fra tutti la Germania, l’Italia al guinzaglio è l’unica che piace.
I nazionalismi non c’entrano: è solo business, per gli Stati forti dell’Unione il nostro Paese è un osso da spolpare, come sta già visibilmente accadendo alla luce del sole. E un sistema bancario sorretto da uno Stato indebitato oltre misura è una cessione in più di sovranità autentica a chi su quel debito ha l’ultima parola, cioè non Roma ma Berlino.
Va detto che, su questo fronte, il governo in carica non ha colpe storiche: quelle appartengono ai governi Berlusconi e Monti che non colsero – dietro l’apparente immunità delle nostre banche alla crisi dei derivati che aveva indotto i partner europei a rifinanziarle nel biennio 2008-2009 con ben 671 miliardi di euro di denaro pubblico, tra capitale e prestiti – il male oscuro che covava nei loro conti: cioè il deteriorarsi dei loro attivi (quindi della qualità dei crediti esigibili dai loro debitori) a seguito della crisi economica. La crisi economica reale ha fatto esplodere le sofferenze bancarie. Ma di questo si paga il conto oggi.
Sette anni fa, l’Italia scelse la strada di fare il fenomeno, e si limitò a chiedere poco più di quei 4 miliardi di euro che servirono per il Montepaschi (peraltro sotto la forma di quei Tremonti Bond molto redditizi per l’erario e dunque tutt’altro che “parassitari”, grazie alla cui conversione tra qualche settimana lo Stato diverrà azionista di riferimento formale dell’ex colosso creditizio senese).
Oggi gli oltre 200 miliardi di sofferenze bancarie che pesano sul sistema, e che sono ancora in crescita secondo la stessa statistica dell’Associazione bancaria italiana e sono coperti da garanzie per circa la metà, rappresentano una palla al piede. Tolto forse il gruppo Intesa Sanpaolo, nessuno osa più rischiare nell’erogazione di nuovi crediti, e davvero – come recita il vecchio adagio – si prestano solo i soldi ai novantenni purché accompagnati dai genitori.
Ecco perché il governo – di fronte ai disastri del nostro comparto bancario in Borsa dopo la Brexit – ha troncato gli indugi: c’è un’emergenza e bisogna intervenire. E pur tra mille tentennamenti di circostanza l’Europa ha accettato di trattare. Che sia un maxi-fondo tipo Atlante, ma a capitale prevalentemente pubblico, che acquisti le sofferenze ai valori di mercato, come fece vent’anni fa il ministero del Tesoro costituendo la “bad bank” che raccolse i cocci del Banco di Napoli; o che siano vere e proprie iniezioni di capitali freschi del Tesoro nelle banche malconce, a cominciare -ancora – dal Montepaschi, o che sia un mix tra questi strumenti, si vedrà. Certo che senza il denaro pubblico il salto di qualità necessario non si compie. Basti pensare che il Fondo Atlante, finanziato prevalentemente dal gruppo Intesa con altre banche private e solo per un 10% dello Stato, ha già praticamente esaurito la sua dotazione per intervenire nella Popolare vicentina e in Veneto Banca solo sulla loro primissima necessità di sopravvivenza…
E dunque? Dunque quello che si intravede attraverso il polverone concitato di queste ore è molto semplice: per l’Italia, con 2249 miliardi di debito pubblico per circa il 135% del Pil, la possibilità di rientrare nelle cervellotiche proporzioni del “Fiscal compact” dettato dal ministro tedesco Schauble o anche semplicemente di invertire la tendenza all’aumento del debito è ridottissima. L’Italia dovrebbe riuscire a sviluppare un “avanzo primario”, cioè un saldo attivo tra le entrate erariali totali (tasse, imposte, accise e servizi vari) e uscite correnti (stipendi, acquisti, investimenti) di almeno 100 miliardi di euro all’anno per poter, con essi, ripagare gli interessi sulla montagna di debito in essere e conservare un margine con cui spesare la differenza tra rimborsi di vecchi titoli in scadenza ed emissioni, in quantità inferiore, di nuovi titoli. Cento miliardi di avanzo primario sono un miraggio, per moltissime ragioni. Occorrerebbe una “macelleria sociale” di impianto greco, per provarci: senza avere peraltro alcuna certezza di riuscirci.
Ma allora, se così stanno le cose, cosa conta aggravare ancora di 40 miliardi il debito pubblico se, almeno, in cambio, si riesce a dare una spinta alle banche? L’ostilità dei banchieri a quest’ipotesi si spiega più come un atteggiamento di apparenza che di sostanza. Da una parte è vero che con lo Stato nel capitale cambierebbero alcune regole del gioco a loro gradite, dai maxistipendi alla gestione autocratica del potere creditizio, e questo non piace a chi è più sano, che in fondo nel salvataggio delle banche decotte vedrebbe una distorsione della concorrenza. Dall’altra parte, se il salvataggio di una banca oggi può transitare solo – com’è stato con Atlante – attraverso forme di “colletta” finanziaria privatistica, il sistema non ha le spalle larghe abbastanza per salvare nessun’altro.
C’è poi la richiesta italiana di sospendere gli effetti del “bail-in”, cioè della pretesa di colpire con i costi di un dissesto bancario non solo gli azionisti privati della banca in crisi – che possono essere stati semmai ingenui, o truffati, come nel caso delle due banche venete, ma erano comunque soggetti decisi a investire i loro soldi e non solo a custodirli nel conto corrente – bensì anche gli obbligazionisti. Nella realtà italiana, e non da pochi mesi ma da molti anni, le obbligazioni bancarie erano diventate un fenomeno di risparmio di massa, per cui sono milioni gli italiani medi che hanno comprato, più o meno ignari di quel che facevano, le obbligazioni della banca di cui erano azionisti e che rischiano di rimetterci le penne. Convinti di comprare titoli arci-sicuri, garantiti dal sistema collettivo: quasi fossero titoli di Stato. Ora, vederseli portar via genera davvero desolazione, crisi, drammi umani.
Il governo vorrebbe scongiurare quest’ennesimo rischio. Sia perché socialmente davvero sanguinoso, sia perché elettoralmente devastante. Ancora una volta, si tratta di chiedere oggi pietà all’Europa per una norma approvata anche dall’Italia, senza un briciolo di lungimiranza, a causa di quella iattanza inconsistente che distingue in particolare la classe politica italiana da molti governi. E ancora una volta la murena europea spalancherà volentieri la sua bocca per incastrarci meglio.
Eppure, nonostante le fatali complicazioni future che comporterebbe, una soluzione straordinaria che aiuti in questa fase drammatica le banche italiane appare indispensabile. A un prezzo politico esoso, ma in fondo comunque prima o poi inevitabile.