In Giappone, il partito liberaldemocratico dell’attuale premier, Shinzo Abe, ha vinto le elezioni per il rinnovo della Camera Alta, ottenendo una maggioranza dei due terzi. Ora la coalizione di governo ha un saldo controllo sul Parlamento, il che renderà possibile il varo, in autunno, di corposi sostegni all’economia. Insomma, non solo l’Abenomics non finisce, ma verrà ulteriormente ampliato. E nel silenzio più assoluto, nel fine settimana l’ex governatore della Fed e ora advisor di Citadel, Ben Bernanke, si è incontrato proprio con il numero uno della Bank of Japan, Haruhiko Kuroda: motivo del meeting? Pare una discussione preliminare proprio sulle future misure di sostegno, chiacchierata che avrebbe visto più volte citata l’ipotesi di helicopter money, ovvero la fase terminale e faustiana di tutti i programmi di allentamento monetario possibili. Nemmeno a dirlo, il Nikkei è esploso.
Cosa significa questo? Che siamo alla disperazione. Globale. E che, come Keynes impone, per combattere l’eccesso di debito che crea bolle distorsive, si fa altro debito. Ma mentre a Bruxelles, Eurogruppo ed Ecofin sono chiamate a dare una risposta alle pressioni del nostro Paese riguardo interventi di sostegno al sistema bancario, domenica sulla Welt am Sonntag, il capo economista di Deutsche Bank, David Folkerts-Landau, ha detto chiaramente che le istituzioni europee dovrebbero ricapitalizzare l’intero sistema bancario con un bail-out sullo stile di quello posto in essere negli Usa dopo il crollo Lehman Brothers, quando furono sborsati 475 miliardi di dollari. Per David Folkerts-Landau, «in Europa non sarebbe necessaria una cifra simile. Un programma da 150 miliardi di euro sarebbe sufficiente per aiutare le banche europee a ricapitalizzarsi».
E se per l’economista il crollo dei titoli bancari è solo il sintomo di un problema più grande, ovvero il combinato tra bassa crescita, debito alto e deflazione pericolosa, lo scenario appare fosco: «L’Europa è seriamente malata e c’è bisogno di dare risposta al problema in fretta o prepararsi ad affrontare un incidente». La conclusione: «Aderire in maniera troppo stretta alle regole potrebbe causare più danno della loro sospensione». Come dire, siamo alla canna del gas. Ma a chi si riferiva David Folkerts-Landau, alle banche italiane e ai loro problemi con le sofferenze o al proprio datore di lavoro?
Già, perché Deutsche Bank è messa davvero male. A 12,60 euro per azione e con un capitalizzazione di mercato di soli 15,8 miliardi di dollari, il titolo vale ora l’8% di quanto valeva al suo picco nel maggio 2007 e dall’inizio dell’anno ha già perso il 48%. Pur avendo cambiato parecchi amministratori delegati dalla crisi finanziaria a oggi, il colosso tedesco non pare essere in grado di risolvere i propri problemi strutturali. L’attuale Ceo, John Cryan, ha annunciato un piano di tagli draconiano, con 9mila licenziamenti e la cessazione delle attività in 10 nazioni, ma gli ultimi sei mesi hanno visto un’accelerazione spaventosa delle criticità.
Prima di tutto, l’anno è iniziato con la comunicazione al mercato di una perdita record da 6,8 miliardi per il 2015, dato che impose a Cryan di lanciarsi in una campagna tranquillizzante, dicendo al mercato che la banca «è solida come una roccia» e lo stesso ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, disse che attorno all’istituto «non ci sono preoccupazioni». Traduzione: siamo in modalità crisi urgente. Il 16 maggio scorso la Berenberg Bank avvertì che «i problemi di Deutsche Bank potrebbero essere insormontabili», visto che la banca opera a leva 40x, mentre il 2 giugno due ex dipendenti furono accusati negli Usa per lo scandalo della manipolazione del Libor e la Financial Conduct Authority britannica annunciava che almeno 29 dipendenti del colosso tedesco erano implicati nella vicenda.
Il 23 giugno, il risultato al referendum britannico sull’uscita dall’Ue colpì duramente Deutsche Bank, il più grande istituto europeo operante nella City e che vede il 19% delle sue revenues generate proprio nel Regno Unito. Il 29 giugno è il Fmi a definire in un suo studio Deutsche Bank «il più grande rischio sistemico a livello bancario», mentre il giorno dopo la Federal Reserve annuncia che l’istituto tedesco ha fallito gli stress test negli Usa, a causa di «insufficiente risk management e pianificazione finanziaria». Senza parlare poi dell’esposizione nozionale lorda ai derivati, qualcosa come 57 trilioni di dollari: cosa succederebbe al derivative book della banca se questa divenisse insolvente?
Non capiterà, per il semplice fatto che la Bce è già oggi costretta a intervenire e a inventarsi qualcosa. Il motivo è semplice: il rischio legato al Qe che vi palesavo fin dal suo annuncio, si sta sostanziando. L’Eurotower sta infatti finendo la platea di securities eligibili all’acquisto da monetizzare. E se il fatto che con il lancio del Cspp ovvero l’aquisto di bond anche junk e non solo investment-grade, Draghi avesse già ammesso il guaio al mondo, ora sono i numeri a parlare in maniera molto chiara e netta. La corsa al Bund delle ultime settimane, dettata dalla volontà di cercare beni rifugio, ha infatti operato un brutto effetto sul rendimento degli stessi, rendendoli non più statutariamente acquistabili dalla Bce.
Come ci mostra il grafico più sotto, infatti, oggi c’è debito con rendimento negativo a livello globale per un controvalore di 13 triliardi di dollari: per capirci, prima del Brexit eravamo a quota 11 triliardi. E proprio la corsa post-Brexit ha spinto il rendimento di circa il 70% delle securities presenti nel Bloomberg Germany Sovereign Bond Index, una platea da 1,1 trilioni di dollari, al di sotto del tasso di deposito della Bce, -0,4%, rendendo quindi quegli assets non più eligibili per l’acquisto all’interno del programma di allentamento monetario. Prendendo l’area euro come insieme, il totale è salito a quasi 2 triliardi di dollari. Insomma, paradossalmente lo stato di salute strepitoso del Bund garantito dalla corsa al bene rifugio ha fatto in modo che l’obbligazione sovrana tedesca non possa più essere comprata direttamente dalla Bce, essendo in negativo sullo yield fino alla scadenza dei 15 anni.
Non a caso, già la settimana scorsa, l’agenzia Bloomberg rendeva noto che una fonte anonima all’interno della Bce aveva dichiarato quanto segue: «La Bce sta soppesando l’idea di rilassare le regole relative al Qe, visto che il Brexit ha inciso sul pool di assets acquistabili. L’opzione sul campo include anche l’abbandono per il Qe del principio dicapital key. Infine, la Bce è preoccupata dal restringimento del pool di debito eligibile all’acquisto». Il giorno seguente la Reuters negò questa ipotesi, di fatto smentendo la notizia della concorrente, ma il mercato sembra prezzare già oggi un cambio della politica attuale della Bce già per il prossimo meeting dell’istituto centrale: o si eliminerà il floor del tasso di deposito come limite interamente oppure in combinato con l’eliminazione del concetto di capital key.
Insomma, tranquilli: fino a quando non sarà orgogliosa proprietaria di tutto il debito sovrano e corporate europeo, la Bce non si fermerà. Sperando che nulla vada storto, però.