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Home » Economia e Finanza » CAOS BANCHE/ Lo “spread” che affossa l’Italia

  • Economia e Finanza

CAOS BANCHE/ Lo “spread” che affossa l’Italia

Sergio Luciano
Pubblicato 25 Luglio 2016
giustizia_cassazione_tribunaleR439

Cassazione - LaPresse

I problemi ben noti della giustizia italiana hanno dei riflessi anche sull’economia e pesano sulla situazione già fragile delle banche, come spiega SERGIO LUCIANO

Lo “spread giudiziario” affossa le banche italiane. Lo dice la Bce, c’è da crederle. O no? Ma la verità è che il disastro assoluto della macchina giudiziaria italiana è certificato da anni, anzi decenni, da tutti gli istituti di ricerca mondiali. E che nessuno, nemmeno il governo Renzi a dispetto dei proclami, c’ha messo mano seriamente si sapeva. Certo, che proprio oggi la Banca centrale europea decida di pubblicare un “working paper” che inchioda l’Italia alle spalle anche di Grecia e Portogallo nel funzionamento della giustizia fa effetto, visto che sulle altissime scrivanie di Francoforte tiene banco il caso delle banche italiane oppresse da 350 miliardi tra sofferenze e incagli e da 87 miliardi almeno di sofferenze nette. E che l’incertezza, la lungaggine e l’approssimatività dei recuperi giudiziari degli asset presi in pegno nuoce alle banche e deteriora la qualità delle garanzie a esse fornite dai debitori.


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La ricerca, firmata da tre economisti – Andrea Modo della Cranfield School of Management, Annalisa Ferrando dell’ufficio studi Bce e Daniela Maresch dell’Institute for innovation di Linz – ci classifica nelle posizioni di coda per maggior numero di giorni per l’esecuzione di una sentenza, il costo più alto per il recupero di una garanzia (un terzo del valore del bene), minore protezione della proprietà. Tutto questo – cioè un sistema legale inefficiente – compromette l’accesso al credito delle aziende, conclude la ricerca. Secondo cui dove i tribunali funzionano, l’accesso al credito è del 40% più facile perché le banche sanno che, alla mala parata, recuperano rapidamente il recuperabili “escutendo” i pegni.


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Ma basta un motore di ricerca per reperire illustri e recenti denunce precedenti. Inascoltate. A fine 2015 la Banca mondiale ha inchiodato l’Italia al 111esimo posto su 189 nazioni considerate nella classifica dell’Enforcing Contract, cioè la possibilità maggiore o minore di recuperare un credito commerciale per via giudiziaria (o escutere un pegno). A onore del vero, rispetto all’anno precedente qualche posizione era stata recuperata dal nostro Paese – grazie soprattutto all’avvio del processo telematico, e questo aveva fatto cantare vittoria al premier -, ma il progresso lasciava l’Italia inconfrontabile con Francia (12° posto), Germania (14°), Gran Bretagna (33°) e Spagna (34°). I nostri compagni di banco erano Gambia e Qatar. L’unica sotto-classifica in cui l’Italia era quotata alla pari dei partner europei era quella delle procedure di risoluzione alternative delle controversie e degli incentivi al loro ricorso: insomma, il “mettiamoci d’accordo” tra persone di buona volontà. Che però non è proprio il pane quotidiano dei banchieri.


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Guardando ancora più indietro, solo conferme penose: nel 2012 il rapporto della Banca mondiale ci classificava al 160° posto, dietro Zimbabwe, Uganda e Gabon. La durata media censita per il processo civile era di 7 anni, occorrevano 1210 giorni per risolvere una controversia giudiziaria contro la media Ocse di 510 e i 410 giorni dello Zimbabwe, il tutto per il costo (fonte Bankitalia) di un punto di Pil. Nel 2013 la musica non cambiava: Italia al trentacinquesimo posto in Europa su 42 per efficienza del sistema giudiziario. E 1266 giorni per chiudere una controversia civile.

A fronte di questo bollettino di guerra, le speranze che il programma del governo Renzi avevano suscitato sono, se non sfumate, drasticamente ridimensionate. La contrapposizione con la classe giudiziaria all’inizio molto accentuata è completamente rientrata, e la casta delle toghe è stata restituita alla sua autogestione assoluta, che certo non brilla per sensibilità rispetto all’abisso di inefficienza in cui il sistema versa, lo stesso per cui gli studi legali più saggi sconsigliano oggi i loro clienti dal far causa per controversie dal valore inferiore ai 30 mila euro, pena il rischio di spendere in costi giudiziari più di quanto in caso di vittoria si recupererebbe: questo è il segno del fallimento di un sistema.


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