Che la situazione sia grave, ormai, non lo nega più nessuno. Anzi, siamo allo scontro frontale con l’Europa sulla questione banche e ora sono i grossi calibri a sparare, non più i sottosegretari o i funzionari. Quella di ieri, è stata la giornata della riprova di tutto ciò. «A fronte del rischio che, in un contesto di elevata incertezza, problemi circoscritti intacchino la fiducia nei confronti del sistema bancario, un intervento pubblico non può essere escluso», ha affermato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel suo intervento alla 56ma assemblea dell’Abi, l’Associazione bancaria italiana. D’altra parte la situazione attuale, densa di rischi per la stabilità finanziaria, «richiede la predisposizione di un backstop pubblico da attivare in caso di necessità, nel pieno rispetto delle norme comunitarie, tenendo ben presenti i potenziali effetti sistemici di eventuali crisi per i singoli Stati membri e per l’area dell’euro nel suo complesso», ha aggiunto il numero uno di palazzo Koch, ricordando che la normativa europea prevede la possibilità di interventi pubblici di natura precauzionale anche sul fronte della capitalizzazione, con riferimento ai risultati delle prove di stress.
Visco ha poi precisato che l’argomento sollevato da alcuni a livello europeo, a detta dei quali interventi pubblici a sostegno del sistema bancario italiano avrebbero dovuto essere effettuati in passato, come avvenuto in altri Paesi, «non tiene conto della diversa soluzione delle condizioni dei sistemi bancari nazionali nel tempo». Insomma, il capo della nostra Banca centrale dice che serve un intervento statale in deroga a quanto impone l’Europa. Se non è una rottura istituzionale questa, ditemi voi.
Ma sempre dall’assemblea dell’Abi, ha fatto sentire la sua voce il numero uno dell’associazione, Antonio Patuelli e qui i toni e le argomentazioni sono andati anche oltre. Primo, gli istituti di credito italiani ritengono necessario limitare le soglie patrimoniali e i contributi ai fondi obbligatori europei. Per Patuelli, occorre porre «un calmiere per l’onerosità a carico delle banche per la contribuzione ai numerosi fondi anche obbligatori europei, soprattutto a quelli ai quali l’Italia non ricorre». Per il sistema creditizio nazionale, infatti, quest’anno il conto a sostegno del settore potrebbe ammontare a circa 5 miliardi di euro. Di questi, 1,5 miliardi per i contributi dovuti con le nuove regole sulla vigilanza unica europea e 3,5 miliardi per altre iniziative volontarie. Che bella l’Europa, davvero un affarone. Poi Patuelli ha puntato ancora una volta il dito sulla procedura del bail-in, così com’è stata formulata. Stando al banchiere, infatti, tale sistema dovrebbe essere rivisto e corretto almeno nelle parti in cui questo va a scontrarsi con la Costituzione: «Occorre venga rivista al più presto la normativa sulle risoluzioni e sul bail-in, innanzitutto per ciò che contrasta con la Costituzione italiana. Le innovative iniziative private come il fondo Atlante e il rinnovato ramo volontario del Fondo interbancario, con interventi preventivi, partecipativi e non più a fondo perduto, prevengono i rischi di altre eventuali, e più costose per tutti, risoluzioni e respingono ogni ipotesi di bail-in».
Posso essere d’accordo, però due sono i punti. Primo, si doveva dire no a quella regolamentazione prima che entrasse in vigore il primo gennaio, non adesso a disastro imminente. Per caso non si era letto bene il testo, prima di dare l’ok in sede europea? Secondo, cosa accadrebbe se si arrivasse a provare un profilo di incostituzionalità del bail-in? Saremmo in pieno conflitto di attribuzioni tra la nostra Corte costituzionale e l’Alta corte europea che verrebbe comunque scomodata dalla Commissione Ue: di chi sarebbe il parere vincolante (e vincente) a vostro modo di vedere? Di più, cosa penseranno ora gli obbligazionisti di Banca Etruria e socie, visto che il capo dell’Abi, non il sottoscritto, sta di fatto dicendo loro che sono stati depredati dai risparmi di una vita in modo incostituzionale?
Siamo veramente in una situazione pericolosa e intendo dire più a livello sociale che finanziario: basta un niente per perdere del tutto la fiducia e farsi prendere dal panico in stile greco o cipriota. Per questo, occorre agire in fretta e risolutamente. Che a Bruxelles e Francoforte piaccia o meno, lo dico chiaramente. Anche perché lassù qualcuno o sta giocando sporco, oppure è fuori controllo: in un caso o nell’altro, tocca pensare a noi stessi e basta. Quando infatti sembrava che il comparto bancario italiano tornasse a respirare l’altro giorno, proprio sulla scorta di un possibile paracadute pubblico, la doccia fredda non ha tardato ad arrivare per voce del falco di turno, Jeroen Dijsselbloem. Il presidente dell’Eurogruppo, pur escludendo problemi di liquidità, si è infatti detto preoccupato per la situazione delle banche italiane, spiegando che in nessun caso il salvataggio degli istituti potrà avvenire eludendo la direttiva sulle banche e le nuove regole sul bail-in: «Altri paesi sono riusciti a ristrutturare le proprie banche con mezzi pubblici e gli italiani non lo hanno fatto allora, ma ora abbiamo regole più severe». Capito il perché degli interventi di Visco e Patuelli?
Ma sempre giovedì e sempre dall’Ue è arrivata un’altra notizia che mi fa propendere per la volontà incendiaria di qualcuno: né il Portogallo, né la Spagna hanno corretto il deficit pubblico come raccomandato dalla Commissione europea per rispettare i parametri del Patto di stabilità e crescita. Boom! Ma l’esecutivo comunitario è furbo, non si prende la responsabilità di un atto politicamente devastante per i governi dei due Paesi (e per il buonsenso, visti gli sforzi fatti in tal senso da Madrid e Lisbona) e ha rimandato al consiglio Ecofin di martedì prossimo l’eventuale proposta di sanzioni per i due Paesi iberici. In particolare, lo sforzo di correzione strutturale per il periodo 2013-2015 in Spagna è stato stimato allo 0,6% del Pil, al di sotto del 2,7% del Pil richiesto dal Consiglio europeo, mentre il debito del Paese al 99,3% nel biennio 2014-2015 è sopra la soglia del 60% prevista dal patto. Nel periodo 2013-2015 il Portogallo ha, invece, operato correzioni strutturali pari all’1,1% del Pil, anche in questo caso al di sotto dell’obiettivo del 2,5% del Pil, mentre il debito pubblico è stato portato sotto il 130% del Pil.
Andate però a vedere come hanno ridotto le economie dei due Paesi le manovre folli di svalutazione interna imposte dalla Troika per raggiungere i suoi obiettivi lunari. Ma in Europa sono dei mattacchioni, in fondo, perché a detta del commissario Ue agli Affari economici e finanziari, Pierre Moscovici, «la decisione di avviare formalmente la procedura comunitaria per il mancato rispetto degli obiettivi di deficit non deve essere interpretata come una volontà di punizione». Anzi, è un regalone, ci mancherebbe. L’alto funzionario ha anche aggiunto che la Commissione Ue ha intenzione di applicare “intelligentemente” le norme del Patto di stabilità e crescita: «Quanto abbiamo deciso oggi è riferito al passato. Riconosciamo gli sforzi fatti e il miglioramento delle rispettive situazioni economiche ma non è stato fatto abbastanza secondo gli obiettivi fissati».
A mio avviso, se hanno un briciolo di cervello, martedì all’Ecofin non verranno decise né sanzioni, né aperture di procedimenti di infrazione: a meno che non si voglia far saltare il governo portoghese e strozzare nella culla quello ancora formalmente non nato di Mariano Rajoy in Spagna. Il premier lusitano, Antonio Costa, ha infatti detto chiaramente che le sanzioni europee investment grade garantitogli dalla Dbrs, un’agenzia di valutazione canadese, visto che le “tre sorelle” lo mantengono sotto il livello necessario per essere eligibile agli acquisti dell’Eurotower. Se Dbrs dovesse rivedere al ribasso rating e outlook, in caso di sanzioni e Lisbona perdesse il backstop della Bce, cosa succederebbe allo spread portoghese e ai conti pubblici?
Forse, però, una soluzione potrebbe esserci e, paradossalmente, potrebbe arrivare dalla Germania, il cui ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, l’altro giorno ha teso una mano alle richieste del governo italiano sul fronte bancario, definendole «non una violazione delle norme comunitarie». Come mai? Per quello che vedete nel primo grafico più in basso, ovvero il fatto che la Bremer Landesbank (Blb), controllata NordLB, sta schiantandosi e questo non è piacevole, visto che NordLB, detiene il 54,8% del suo portfolio sofferenze. E chi altro controlla Blb? La città di Brema e l’associazione delle casse di risparmio del Nord Reno-Westfalia, le quali il mese scorso, incontratesi con il numero uno NordLB, Gunter Dunkel e il ministro delle Finanze del Land, Karoline Linnert, hanno deciso di mantenere il capitale della banca «intatto e a un livello appropriato». Mercati rassicurati e via. Perché allora quel tonfo l’altro giorno? Perché le stesse norme comunitarie che stanno bloccando la strada al governo italiano valgono anche per quello tedesco e stanno mettendo a rischio la ricapitalizzazione di Blb, poiché solo un intervento del governo potrebbe garantire l’operazione, ma le regole Ue non lo consentono. Insomma, chi di rigidità regolatoria ferisce, rischia anche di perirci.
Lo capiranno che sono regole idiote in un momento di emergenza e instabilità come questo? Lo spero, perché il secondo grafico ci mostra come dopo il bando della Consob sulle vendite allo scoperto, il credit default swap di Monte dei Paschi sia schizzato sopra quota 1700 punti base, un livello che implica il 67% di probabilità di default. Renzi dimostri di essere leader e intervenga: se l’Europa avrà da ridire, ci faremo i conti dopo. A sistema se non salvato, almeno puntellato e messo in quarantena da contagi. E lo faccia ora.