La riunione del patto di sindacato di Mediobanca, a un mese dall’assemblea annuale di fine ottobre, era tradizionalmente un evento. Il “salotto buono” della finanza nazionale si materializzava in via Filodrammatici, fra banchieri e grandi industriali. Gli esiti erano spesso inferiori alle attese, meno fantafinanziari di quanto puntualmente preconizzato dalle estati della Piazza Affari che fu. Ma – fino alla morte di Enrico Cuccia e poi alla defenestrazione di Vincenzo Maranghi – nell’assemblea del patto si guardavano negli occhi, assieme, personaggi che avevano voce in capitoli nell’agenda-Paese.
Allora Mediobanca non aveva un “piano industriale” e non si curava di comunicare in anticipo ai mercati le sue strategie e i suoi obiettivi. Per 54 anni il “piano” si concretizzava nelle scelte quotidiane del fondatore: fedele alla massima secondo cui “il peccato veniale del banchiere è perdere i soldi, quello mortale lasciarsi scappare un’informazione riservata” (il detto gemello suonava invece: “Chi rischia troppo perde i suoi quattrini, ma chi rischia troppo poco perde i buoni affari”).
Il primo “piano industriale” della nuova Mediobanca è stato stilato nel 2005: i primi anni di un declino più che dignitoso, ben lontano dagli orrori di tanti dissesti bancari recenti. Tuttavia anche il preannuncio di un nuovo “business plan” Mediobanca, ieri in margine all’assemblea del patto, è stato appena registrato dalla routine milanese. Con toni che – in un lancio d’agenzia – hanno assunto toni curiosi.
La presentazione del piano, da parte dell’amministratore delegato Alberto Nagel, potrebbe avvenire il 22 novembre: ma la data sarebbe “puramente indicativa” perché in quegli stessi giorni saranno probabilmente svelati l’atteso masterplan di UniCredit (che resta il primo azionista di Mediobanca) e la revisione del piano delle Generali: di cui lo stesso Istituto rimane primo azionista. Dunque Piazzetta Cuccia non vuole in alcun modo interferire con gli show delle istituzioni finanziarie a monte e a valle. Il tema può sembrare irrilevante, ma non lo è se osservato in controluce.
Un tempo il Credit (poi UniCredit) e le Generali vivevano un legame di dipendenza simbiotica da Mediobanca: anche Piazza Cordusio che pure ne era azionista, era polmone di raccolta bancaria (assieme a Comit e Banca di Roma) per finanziare tutte le operazioni di finanza straordinaria di cui Mediobanca era quasi-monopolista in Italia. E le Generali – a lungo la sola istituzione finanziaria di livello europeo basata in Italia – erano un’ammiraglia sulla quale Cuccia condivideva un potere personale con il finanziere francese Antoine Bernheim.
Oggi UniCredit appare poco più di un azionista finanziario in Mediobanca (che ieri ha deciso di chiamare in consiglio Marina Natale, una manager che il nuovo corso di Jean Pierre Mustier ha un po’ accantonato in Piazza Gae Aulenti). E sulle Generali Mediobanca è attenta a non recitare più il ruolo storico di azionista-pilota: incerta peraltro su tempi e modi di una progressiva ritirata dal capitale del Leone. UniCredit, d’altronde, ha bisogno di molti capitali freschi, mentre a Trieste convince poco il graduale rafforzamento di Francesco Gaetano Caltagirone. Eppure Mediobanca resta apparentemente attenta soltanto agli incroci di agenda sugli incontri con gli analisti: come se perfino nell’Italia del 2016 – dove tutto appare ormai possibile, mentre non lo era ai tempi di Cuccia – fosse impossibile progettare grandi operazioni strategiche. Anzitutto nell’interesse di Mediobanca.