Per chi lavora il presidente catalano, Carlos Puigdemont? Non certamente per la Catalogna e i catalani, visto che con la sua azione ha di fatto operato la scelta di rappresentare solo una parte del suo popolo e non si sa nemmeno quanto maggioritaria. Pensiamoci a mente fredda. Ha forzato la mano e la legge, indicendo un referendum di fatto illegale rispetto alla Costituzione spagnola, ha portato in tal senso la gente alle urne nonostante la diffida di Madrid e, quindi, ha messo se stesso e il suo Paese sulla linea del fronte: già di per sé, un azzardo. Poi, per così dire,il colpo di fortuna: la reazione spagnola, attraverso la Guardia Civil e i suoi eccessi ai seggi, gli aveva garantito una sorta di immunità politica internazionale, visto che le immagini che arrivavano da Barcellona il 1 ottobre spingevano verso una sorta di simpatia unilaterale per la causa catalana.
A quel punto, visto che Puigdemont sapeva di essere andato oltre, poteva cercare la mediazione. Invece no, stupidamente ha forzato la mano sulla proclamazione di indipendenza e tutti sappiamo cos’abbia portato in dote questa scelta: fuga delle aziende, turbolenze dell’indice Ibex e, soprattutto, un vicolo cieco. O proclami davvero unilateralmente l’indipendenza, andando incontro alla sospensione dell’autonomia da parte di Madrid attraverso l’articolo 155 e quindi arrivi al muro contro muro o ti rimangi tutto, dichiarando la tua fine politica e dimostrandoti un bluff.
Puigdemont è stato nel mezzo, proclamando a metà e poi sospendendo, in attesa di negoziati. Non poteva negoziare prima? Domanda che di fatto Madrid gli ha rivolto la scorsa settimana, quando gli ha chiesto di essere chiaro: l’indipendenza è stata proclamata oppure no? La risposta era attesa per ieri, quando invece il presidente catalano ha inviato una lettera in cui chiedeva due mesi di negoziati. Altra presa in giro, cui Madrid ha risposto chiaro: l’assenza di risposta non è accettabile, o ci dice chiaro cosa ha deciso entro giovedì mattina o scatta l’articolo 155 e viene sospesa l’autonomia. Puigdemont vuole forse arrivare a questo, il tutto per addossare l’innalzamento della tensione a Madrid e cercare di uscirne da martire? Se così fosse, si tratta di un atteggiamento responsabile? E l’Europa, come può accettare una manfrina simile da parte di un suo Stato membro?
E qui, a mio modo di vedere, casca l’asino. L’Europa ha soltanto da guadagnare da questa situazione e dal suo perdurare. Al netto di tutto, infatti, l’Ibex ha sì perso ma non è crollato. Lo spread spagnolo è sì salito un pochino, ma sappiamo tutti che, stante lo scudo Bce, la danza del differenziale non più quella macabra del 2011: se ci sono tonfi sono pilotati. O voluti, come quelli che si vorrebbero indurre a tempo debito per le banche italiane attraverso la nuova normativa sugli Npl. Gli spostamenti di sede delle aziende con base in Catalogna? In realtà cambia poco o niente, non è che si fermino i macchinari o operatività delle banche: e poi, come si è andati ad Alicante, si può sempre tornare a Barcellona con un cda e due firme.
Perché allora questa manfrina? E perché l’Ue dovrebbe volerne la prosecuzione quasi sine die? Perché garantisce da un lato una cortina fumogena mediatica e, dall’altro, un esempio. Verso chi? La Gran Bretagna e il Brexit, una questione sottovalutata da tutti e che invece sta diventando un guaio di dimensioni enormi, tanto che per riuscire a sbloccare l’impasse ieri sera Theresa May era a Bruxelles per una cena con Jean-Claude Juncker. Per ovvi motivi temporali, non ho idea dell’epilogo di quell’incontro, ma so con certezza che non era nato sotto i migliori auspici: «Abbiamo quasi finito gli argomenti di cui parlare», si era fatto sfuggire domenica sera il capo della Commissione Ue, ripreso dalle agenzie.
E che qualcosa si sia rotto nella favola bella del Regno Unito che se ne va, danzando e cantando, dalla gabbia Ue, lo conferma quanto pubblicato in esclusiva ieri mattina dal Daily Telegraph, conservatore, euroscettico e schierato palesemente per il Brexit. La Gran Bretagna si è infatti ritrovata da un giorno all’altro più povera per 490 miliardi di sterline, circa 550 miliardi di euro: una cifra spaventosa emersa dopo che l’Ufficio nazionale di statistica (Ons) ha ricalcolato la ricchezza del Paese, scoprendo che erano stati sovrastimati gli asset internazionali. Per il Telegraph, non è quindi rimasta una riserva di asset stranieri da utilizzare per proteggere l’economia nazionale contro i rischi della Brexit.
In dettaglio, stando ai calcoli rivisti da parte dell’Ons, la posizione patrimoniale netta sull’estero del Regno Unito è passata da un surplus di 469 miliardi di sterline a un deficit di 22 miliardi: una differenza che corrisponde a un quarto del Pil britannico. Fosse vero, altro che pragmatismo e serietà britannica: cialtroni, senza se e senza ma. Ma io credo poco a un errore così macroscopico. Credo in compenso a una manovra politica, finalizzata a quanto vi dico fin dalle elezioni legislative britanniche della scorsa primavera: i poteri forti vogliono spingere Jeremy Corbyn e il suo Labour a Downing Street per arrivare a uno stralcio morbido del risultato del referendum e ricomporre la situazione, tanto che la stessa Theresa May, durante il suo discorso sul Brexit a Firenze di poche settimane fa, ha spostato avanti l’asticella temporale del divorzio al 2021. I colloqui tra i due negoziatori, David Davis e Michel Barnier, sono a un punto morto assoluto e, di fatto, è come se in oltre un anno non fosse accaduto nulla: parole, milioni e milioni di parole ma niente altro di concreto. Vi pare normale?
E infatti, ecco che qualcuno chiede che l’Ue cominci a discutere la relazione futura con la Gran Bretagna, senza più rallentare il processo. È l’appello lanciato dal ministro degli Esteri britannico, Boris Johnson, all’arrivo ieri al Consiglio dei ministri degli Esteri Ue a Lussemburgo. «Facciamo sì che questa conversazione cominci e smettiamola di farci crescere l’erba sotto i piedi. È tempo che la grande nave sia varata in mare aperto e che cominciamo una conversazione seria sul nuovo rapporto futuro». Il tutto con la May che ormai è a pochi centimetri dall’essere disarcionata dalla guida del governo e del Partito conservatore, dopo la fronda di 30 deputati, mossi nell’ombra proprio da Johnson. Il quale, in caso di addio della primo ministro, sarebbe candidato alle elezioni anticipate e, soprattutto, leader Tory, il sogno di una vita politica piena di boria e niente più che diventa realtà.
Nemmeno a dirlo, se si arrivasse a una snap election, Corbyn e il Labour vincerebbero in carrozza. Ma di questo a Johnson non interessa nulla, lui vuole solo i mitologici 15 minuti di celebrità evocati da Andy Warhol, conscio com’e della sua insipienza politica. Certo, il fatto che anche Corbyn, come d’altronde la May, la scorsa settimana abbia risposta che non saprebbe come votare a un secondo referendum sul Brexit, potrebbe far pensare a un altro dilettante allo sbaraglio, ma non cadete in fallo: il leader laburista è un animale politico straordinario, un vero camaleonte. E sa che non sarebbe dov’è senza debite spintarelle mediatiche e di marketing politico da parte di chi conta, City di Londra in testa. Il suo appeal vetero-marxista? Balle da campagna elettorale in fieri, alla prova dei fatti sarà come tutti i premier laburisti: il miglior amico della comunità del business, Gordon Brown in testa.
Insomma, grandi pantomime sui divorzi europei in atto. Il problema reale è uno: se si è arrivati a questo, cosa bolle nella pentola dei rapporti finanziari tra la City e l’Ue da rendere necessario uno sgonfiamento controllato del Brexit? Parliamo di spirito europeo da salvare o, meramente, di collaterale da triliardi che in caso di addio reale, potrebbe tramutarsi nel più grande detonatore di crisi della storia?