FINANZA E POLITICA/ Draghi e il “successo a metà” a cui dobbiamo la ripresa

- Giulio Sapelli

Sfidando i dogmi della Germania, appoggiato dagli Usa, Draghi ha ottenuto un successo a metà con il suo Qe. Ora ha davanti un'altra sfida. GIULIO SAPELLI

mario_draghi_bce_lapresse_2015 Mario Draghi (LaPresse)

Tutto il mondo dell’economia e della politica attende le conseguenze che avrà la progressiva riduzione della politica monetaria perseguita in questi anni dalla Banca centrale europea, ossia l’acquisto sui mercati dei capitali di quantità ingenti di titoli di stato delle nazioni aderenti all’euro. L’origine di questa politica è in quello strappo regolamentare perseguito dalla Bce che sotto la presidenza di Mario Draghi ha messo in discussione se stessa, ossia ha agito contro la volontà della Germania in forma sempre più esplicita via via dopo la crisi del 2007, così da superare i limiti d’espansione della base monetaria dettati dallo statuto della banca stessa. Con la sua presidenza fortemente voluta dagli Usa, Mario draghi da subito si mosse per arginare la crisi da sottoconsumo e da deflazione che si abbatté come un macigno sulle nazioni europee e su tutta l’economia mondiale.

L’eccesso di rischio finanziario iniziò a distruggere quote sempre più ingenti di profitto capitalistico infliggendo alle banche un doppio gravame: l’inesigibilità dei crediti che avevano concesso alle imprese e l’eccesso di rischio da derivati originata dalle loro stesse politiche di debito collateralizato e di vendita di strumenti che distruggevano e distruggono valore capitalistico.

La scelta del capitalismo anglosassone fu quella neokeynesiana della mossa del cavallo: da un lato nazionalizzare o sostenere le banche insolventi o a rischio d’insolvenza, dall’altro sostenere l’economia tutta con bassissimi tassi di interesse così da non bloccare per sempre la propensione all’investimento. Combattere la deflazione era l’obbiettivo che si concretò con l’ipotesi di poter raggiungere il 2% di crescita dei prezzi su scala europea.

Questa la sostanza di una politica che ha diviso l’Europa con la frattura tra Usa (favorevole a tale politica) e Germania (a essa invece contraria) con le note conseguenze a livello internazionale che con la Presidenza Trump si sono vieppiù esacerbate con gravi conseguenze internazionali. Ora la Bce annuncia il lento rientro da questa politica che ha certo salvato le banche consentendo di non interrompere il credito alle imprese e ha consentito alle imprese di non essere vittime di un blocco del credito all’industria. Certo una massa enorme di liquidità si è rovesciata sui mercati con pericolose bolle di liquidità e di fatto senza aver raggiunto l’obiettivo tanto agognato del 2%.

Non si è trattato di un fallimento, ma solo di un successo a metà. E questo perché la tanto bistrattata economia reale, frutto di quelle imprese sostenute dalla politica monetaria delle banche centrali, Federal reserve e Bce in testa, quell’economia reale si è rimessa in moto grazie alla demografia mondiale e all’emersione di sempre nuovi “paesi emergenti” che hanno trascinato in avanti l’accumulazione globale del capitale con iniziali ricadute positive sui livelli di consumo e di occupazione.

La politica di Quantative easing ha certo raggiunto dei risultati positivi, anche se dimidiati. Ha seguito insegnamento di Hyman Minsky, il grande economista italo-nordamericano: dividere il bilancio degli stati dal credito all’economia. Un’eresia per la tecnica economica oggi imperante a matrice tedesca. Ma quell’insegnamento che Mario Draghi conosceva e conosce bene ha salvato per ora l’economia europea. I cosiddetti mercati lo sanno molto bene, più di molti economisti e allora la preoccupazione dev’essere lieve: le borse sconteranno in positivo anche la lenta fuoriuscita dal Quantative easing che Mario Draghi con perizia di nocchiero guiderà.







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