ALITALIA/ E quelle imprese salvate dai loro dipendenti

- Giuseppe Pennisi

L'interesse di Cerberus per Alitalia ha riacceso l'attenzione sulla partecipazione dei dipendenti alla gestione dell'impresa. Ma ci sono lavoratori che fanno anche di più. GIUSEPPE PENNISI

Alitalia_finestrino_lapresse Alitalia oggi diventata ITA (LaPresse)

Tra gli interessati a rilevare Alitalia c’è Cerberus Capital Management, uno dei principali fondi di private equity statunitensi. Secondo quanto riportato dal Financial Times Cerberus ha scelto di non presentare un’offerta vincolante perché ha ritenuto troppo restrittivi i termini della gara. Sempre secondo il quotidiano di Londra, Cerberus ha anche suggerito di essere disposto a investire tra i 100 milioni e i 400 milioni di euro per ottenere il controllo di Alitalia. Il piano Cerberus chiede anche al Governo italiano di mantenere una quota di partecipazione nella compagnia aerea, mentre i sindacati trarranno vantaggio da una forma di “condivisione del profitto”.

Cerberus ha una storia di ristrutturazioni difficili portate a compimento, tra le quali spicca quella di Air Canada più di un decennio fa. Secondo le fonti citate dal giornale, i rappresentanti di Cerberus hanno detto ai commissari che la loro offerta potrebbe rendere Alitalia “sostenibile, competitiva e indipendente”. “Non si tratta di individuare determinati beni, né di acquistare solo aerei o rotte, ma di mantenere l’azienda come compagnia nazionale italiana”, ha affermato uno dei dirigenti del fondo. Al di là delle vicende specifiche di Alitalia occorre chiedersi chi è cosa è Cerberus e cosa significa la “condivisione del profitto” con i lavoratori.

In breve, Cerberus Capital Management è un’azienda statunitense operante fondi di investimento, ha sede a New York ed è stata fondata nel 1992 da Steve Feinberg e da Willian L. Richter. L’ex Vicepresidente degli Stati Uniti Dan Quayle (prima Amministrazione Bush), tornato alla professione di avvocato d’affari, ha avuto un ruolo importante nella creazione del fondo, di cui ora è Presidente. Anche l’ex Segretario al Tesoro John Snow è nei piani alti del fondo. Ciò indica che il management di Cerberus non è privo di esperienza e sensibilità politica.

Le principali e più note operazioni riguardano la Chrysler e la General Motors. Nel 2007 Cerberus con altri 100 investitori ha acquistato l’80% di Chrysler per 5,520 miliardi di euro. Nel 2008 il piano di rilancio dell’impresa automobilistica è fallito a causa della grave crisi finanziaria e industriale e del conseguente rallentamento senza precedenti dell’industria auto negli Stati Uniti. Il 30 aprile 2009 il marchio e le attività di Chrysler sono state rilevate per il 20% dal Gruppo Fiat con l’opzione di raggiungere in futuro, com’è poi stato, la maggioranza. Di rilievo anche l’operazione, nel 2006, dell’acquisizione del 51% di Gmac, il settore finanziario della General Motors. Oggi Cerberus ha investimenti in Chrysler e Gmac pari a circa il 7% del proprio patrimonio.

In ambedue le operazioni ha avuto un ruolo non secondario la partecipazione delle rappresentanze dei lavoratori nella formulazione e attuazione dei piani di riassetto, prima, e negli utili d’impresa, poi. Occorre notare che si tratta di aziende automobilistiche e che Cerberus aveva sotto gli occhi la massiccia ristrutturazione della Volkswagen guidata da Peter Hartz, che da capo del personale dell’azienda con sede centrale di Wolfsburg è diventato il principale consigliere in materia di diritto e organizzazione del lavoro del Cancelliere Schrôder. Il riassetto della Volkswagen si basava in gran misura sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili di impresa. Ciò risale alle varie modalità di “compartecipazione” che caratterizzano il settore industriale tedesco sin dai tempi di Bismarck, ma che erano e sono distanti al modo di fare impresa, e soprattutto impresa industriale, negli Stati Uniti.

Questo aspetto è meno innovativo in Italia. Da un lato, secondo quanto disposto dall’art. 46 della Costituzione, «ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Nel dibattito giuridico e politico che si è svolto nel tempo nel nostro Paese, questo coinvolgimento dei lavoratori nei processi decisionali aziendali è stato considerato come espressione di democrazia industriale, ossia come metodo da utilizzare sia per far pesare gli interessi dei lavoratori nei processi decisionali dell’impresa, sia per regolare i conflitti tra questi. Nel nostro sistema di relazioni il principio partecipativo è stato perseguito attraverso l’introduzione nei contratti collettivi di discipline che garantiscono al sindacato diritti di informazione e consultazione da parte dei datori di lavoro in funzione di controllo dell’esercizio dei poteri di questi ultimi. In sostanza, alle rappresentanze dei lavoratori viene attribuito, per via contrattuale, il diritto a essere informate in via preventiva delle decisioni che l’imprenditore intende assumere su alcune materie.

Questo tipo di partecipazione è stata “istituzionalizzata” anche attraverso il “Protocollo Iri” del 1984, seguito da accordi tra organizzazioni sindacali e altri gruppi a partecipazione statale (Efim, Eni, Gepi, Elettrolux Zanussi, Telecom Italia). Mentre, dal punto di vista della regolamentazione legislativa, la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese è a oggi disciplinata da norme in materia di licenziamenti collettivi e trasferimento di azienda, nonché da regole (uniformi nell’Unione europea) che istituiscono un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori. Abbiamo, poi, due caratteristiche italiane: l’esperienza delle cooperative di produzione e lavoro e quella della Olivetti sino a quando restò nell’elettronica.

In Italia ci sono anche forme di Wbo, acronimo che sta per “workers buyout”: lavoratori cioè che acquistano la società di cui sono o sono stati dipendenti. Un caso recente è quello degli stabilimenti di Caivano della mutinazionale Italcables. Ciascuno dei 51 dipendenti (tutti, 45 operai e 6 funzionari) ha versato 25 mila euro dalla sua mobilità e ha messo la sua firma sulla rinascita di una fabbrica da 50 milioni di fatturato annui (produce cavi d’acciaio per infrastrutture), chiusa con un mercato ancora attivo e una lista di ordini ancora da evadere. Certo, raggiungere questo obiettivo non è stato facile: oltre che unità tra i lavoratori, è servito il supporto di una banca, di un fondo della Lega Coop e di Cooperazione finanza impresa, società partecipata dal ministero dello Sviluppo economico.

Una strada di questo tipo non sarebbe certo facilmente percorribile per Alitalia, viste le cifre in gioco. Tuttavia potrebbe essere un modello per altre aziende italiane che, pur in stato di crisi, potrebbero tornare a camminare sulle loro gambe. L’importante è essere assistiti e accompagnati nel modo giusto in questo percorso.

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