In questi anni, moltissime compagnie aeree sono fallite, in Europa e negli Usa. Il settore è stato in crescita continua, e non risulta che, in seguito a quei fallimenti, i lavoratori siano rimasti a lungo disoccupati, l’indotto privo di commesse, o i passeggeri senza servizi aerei. Di ben diversa gravità le crisi di settori obsoleti per ragioni tecnologiche o geografiche (l’alluminio e la siderurgia, molte attività del terziario, produzioni “esportabili” a costi inferiori, ecc.).
Che poi il voto negativo dei lavoratori (il 67%) di Alitalia sia stato suicida o irrazionale pare difficilmente credibile. Più verosimilmente la gran parte di loro ha valutato le alternative, sia in termini di altre possibilità di occupazione nel settore che in quelli di “condizioni di uscita”. Come dimenticare, infatti, quelle degli esuberi risultati dalla crisi precedente, in cui sono stati garantiti 7 anni di stipendio all’80%, pagati da tutti i viaggiatori aerei con un’addizionale alle tasse di imbarco? Molti avranno pensato a un trattamento non troppo diverso, confortati anche dalla dichiarazione del ministro Calenda, che ha parlato di “costi per lo Stato, in caso di fallimento, di un miliardo di euro”. Questa cifra, che si spera si riferisca solo alla protezione sociale dei 12.000 lavoratori, sarebbe pari circa a 85.000 euro per addetto. Una cifra che sembra molto diversa di quella di cui possono godere le categorie di lavoratori più deboli e meno politicamente protette che perdessero il lavoro.
E qui veniamo alle origini del fallimento di Alitalia, tutte riconducibili all’ininterrotta protezione di un “campione nazionale” che certo da molti anni non è più tale. In un contesto aereo europeo aperto alla concorrenza, che tanto ha giovato a tutti i viaggiatori italiani, il concetto stesso di “campione nazionale” appare datato e indifendibile, buono giusto per proteggere dei monopolisti aggrappati alla borsa dello Stato. Infatti, le tariffe aeree, grazie all’avvento delle compagnie low-cost, sono crollate per tutte le compagnie di un 30% circa, ma la cultura dei campioni nazionali piace moltissimo ai politici, che ne fanno disinvolto uso per “voti di scambio” e collocazione di clientele a tutti i livelli, se non peggio. Questa non disinteressata protezione, si badi, è micidiale, oltre che per i contribuenti, anche per la crescita delle imprese stesse, che non innovano e non imparano a competere. Questa è stata anche la storia di Alitalia, fallita quattro o cinque volte e già costata ai contribuenti circa 8 miliardi di euro (dati Mediobanca).
Se poi Alitalia producesse aerei, cioè avesse un contenuto tecnologico elevato e competitivo, qualche prudenza nel lasciarla fallire o svendere potrebbe essere giustificato. Ma si limita a far volare aerei, e non appare nemmeno in grado di farlo senza perdere soldi. Che poi sia importante per l’immagine del Paese non sembra proprio: è piuttosto vero il contrario, ormai è universalmente noto che la compagnia ha continuato a volare solo grazie a continui salvataggi pubblici.
Il sindacato ne chiede la sostanziale ri-nazionalizzazione, ignorando che è stata proprio la continua protezione pubblica a renderla inefficiente. La politica nega sdegnosamente ogni ipotesi di “accanimento terapeutico”, cioè di ulteriori salvataggi a spese dei contribuenti. Ma il risorgere turbinoso di sentimenti “sovranisti” e anti-mercato deve rendere molto prudenti i giudizi e le aspettative: quando la Patria chiama, cosa importa un miliardo in più o in meno?