SPY FINANZA/ Soros e soldi, le armi dell’Ue per piegare Londra

- Mauro Bottarelli

La trattativa sulla Brexit non sarà affatto facile e anche quanto sta accadendo al Parlamento Usa risulta davvero interessante, spiega MAURO BOTTARELLI

theresa_may_2_downingstreet_lapresse_2017 Theresa May (LaPresse)

Vi prego, se non l’aveste fatto la scorsa settimana, di leggere il mio articolo relativo all’entrata a gamba tesa di George Soros nell’approccio del governo britannico alle trattative per il Brexit. In particolare, il passaggio in cui lo speculatore tramutatosi in filantropo “suggeriva” a Theresa May uno stile più morbido e una dilatazione dei tempi, poiché lo shock principale potrebbe partire proprio da un’Unione che senza Londra si scopre più povera, ovvero con un buco di budget dovuto al venir meno del contributo britannico, al netto del rebate ottenuto dalla Thatcher al vertice di Fontainebleu. Ecco a voi la novità di ieri: «Con il Brexit mancheranno 10-11 miliardi ogni anno al bilancio Ue perché, nonostante lo sconto, la Gran Bretagna era un contributore netto». Parole e musica del Commissario Ue al bilancio, Guenther Oettinger, nel presentare il report di riflessione sulle finanze europee post 2020. E ancora: «I tagli saranno necessari nei prossimi 10 anni, perché non possiamo far finta che niente sia cambiato con il Brexit», ha sottolineato il commissario. Ma guarda un po’, le coincidenze cominciano come al solito a emergere. E, guarda caso, il giorno successivo al raggiungimento di un accordo tra la stessa Theresa May e i nordirlandesi del Dup, i cui dieci seggi permetteranno alla premier di dar vita a un governo di minoranza, il tutto alla modica cifra di 1,7 miliardi di euro di stanziamenti per l’Ulster. Tutto il mondo è paese, nonostante ci vendano la favoletta delle democrazia mature e avanzate di rito anglosassone. 

Insomma, comincia a emergere la verità: è Bruxelles ad aver paura, nel breve termine, del Brexit, non Londra. E lo confermano le parole dello stesso Commissario Ue: «Risparmi e razionalizzazioni colpiranno i fondi per la coesione che vanno alle regioni e a quelli per l’agricoltura. E poi una revisione della spesa ancor più necessaria per finanziare le nuove priorità Ue: migranti, lotta al terrorismo e difesa comune. Lo status quo non è un’opzione, per questo dovranno essere fatte scelte dure». Insomma, un bel campanello d’allarme. Anzi, una sirena vera e propria: «Il gap nelle finanze Ue che nasce dall’uscita del Regno Unito e dai bisogni finanziari delle nuove priorità deve essere chiaramente riconosciuto», si legge nel documento di Bruxelles. 

Stando a quanto riferito da fonti comunitarie, con l’uscita di Londra verrebbero così a mancare all’appello una media di circa 25 miliardi l’anno dopo il 2020. E come si tampona? Aumentare le risorse proprie, seguendo le indicazioni di Mario Monti nel suo “libro bianco”: ad esempio, incassando introiti da una carbon tax (relativa al sistema Ets), dall’Etias (il sistema di visti Ue, paritetico all’Esta americano) o ancora dal signoraggio delle banconote emesse dalla Bce. Insomma, irrealismo allo stato puro. Altrimenti si potrebbe ridurre e razionalizzare la spesa attuale, il tutto in base a quale tipo di Ue si delineerà in futuro (a una o più velocità), stando ai cinque scenari identificati nel White paper presentato a marzo. All’interno del quale si introduce, poi, la proposta di passare dagli attuali bilanci (Mff) strutturati su 7 anni a bilanci su 5 anni, per allinearli alla durata del mandato di Commissione e Parlamento Ue e per rendere più facile adattare la spesa alle nuove necessità, come per esempio è stata la crisi dei migranti o la lotta al terrorismo. Insomma, prepariamoci a un fuoco di sbarramento senza esclusione di colpi verso Londra e non in amore del concetto spinelliano e romantico di Europa che tentano di venderci i media, ma unicamente per una questione di soldi. E non di argent de poche, come potete vedere. 

Resta sullo sfondo, quasi come un impiccio, il volere del popolo britannico, il quale avrà anche sbagliato nella scelta, ma ha compiuto un atto democratico che andrebbe formalmente rispettato. Avrà Theresa May la forza di resistere alle pressioni e negoziare da pari a pari? La fredda risposta giunta martedì via Twitter da parte del capo negoziatore Ue, Michel Barnier, all’apertura della premier sullo status dei cittadini comunitari post-Brexit non lascia intravedere un ammorbidimento dei toni a breve, ma potrebbe essere il classico gioco delle parti, in attesa che qualcuno abbassi per primo toni e pretese. Come già detto, ora è l’Ue ad aver paura, anche perché – al netto dell’emergenza – i particolarismi in seno all’Unione sono tali da non lasciare aperte le porte alle soluzioni alternative proposte da Monti e White paper. Non nel breve termine, almeno. E poi, come ha fatto notare l’Ue, i rischi di un gap di budget andrebbero a inficiare la grande priorità della lotta al terrorismo: in tal senso, un paio di attentati aiuterebbero a piegare le resistenze britanniche, non vi pare? E non lo dico per dietrologia, ma perché, nel silenzio più assoluto, al Parlamento Usa sta accadendo qualcosa di assolutamente senza precedenti. 

Mentre la nostra stampa cosiddetta autorevole parla del Congresso e della Casa dei Rappresentanti Usa solo per bufale come il Russiagate o per atti di aperta provocazione come le nuove sanzioni bipartisan contro Mosca, nei due rami del Parlamento Usa sta accadendo dell’altro. Primo, un durissimo scontro in seno al Partito repubblicano sul nuovo piano sanitario, talmente aspro da aver fatto spostare il voto in aula previsto per ieri alla prossima settimana, pena il rischio concreto di veder andare sotto la proposta del Presidente, con le conseguenze del caso. Secondo, la deputata democratica per le Hawaii, Tulsi Gabbard, membro sia dell’Armed Services Committee che del Foreign Affairs Committee, ha proposto una legge che proibisca agli Stati Uniti di fornire qualsiasi tipo di assistenza a organizzazioni terroristiche in Siria, estendendo il divieto a tutte le entità che le supportano e collaborano con loro. Egualmente importante, la legge proibirebbe la vendita e ogni tipo di cooperazione militare con altre nazioni che forniscano armi o finanzino questi terroristi e i loro fiancheggiatori. Della serie, addio commessa da 110 miliardi di dollari appena siglata da Trump in Arabia Saudita. Ma anche addio al pericolo dell’Isis, ad esempio, visto che i terroristi del Califfato armi e supporto non lo hanno trovato sotto le palme, un bel giorno di primavera del 2012. 

Il nome del progetto di legge parla chiaro, Stop Arming Terrorists Act ed è un duro atto di accusa alla pacifista amministrazione Obama-Clinton, visto che proprio questa nel biennio 2012-2013 aiutò gli alleati sunniti dei ribelli siriani, ovvero Turchia, Arabia Saudita e Qatar, a far arrivare armi alle formazioni anti-Assad, fossero esse interne o di mercenari stranieri. Nel 2013, poi, l’amministrazione Usa cominciò a fornire direttamente armi a quelli che la Cia definiva “gruppi relativamente moderati anti-Assad”, di fatto la conferma che al loro interno era incorporata una variegata gradazione di estremismo islamista. Questo è scritto nel testo della proposta di legge, depositata a Capitol Hill e scritta da una deputata di terza legislatura americana, non da un dietrologo filo-russo come me. Di più, a onor del vero, in un primo tempo Barack Obama disse no alla fornitura diretta di armi ai gruppi dell’opposizione e diede il via libera unicamente a un’operazione coperta della Cia che fornisse aiuto logistico per una campagna di assistenza militare all’armamento di quelle formazioni, il tutto attraverso la fornitura dal porto libico di Bengasi verso due piccoli attracchi siriani. Il tutto, supervisionato da personale militare americano e con il finanziamento dell’intera operazione coperto dall’Arabia Saudita: all’epoca, a capo del Dipartimento di Stato c’era Hillary Clinton, giova ricordare. 

Un report desecretato dell’ottobre 2012 della Defense Intelligence Agency rivelava che il primo carico spedito sul finire del 2012 era composto da 500 fucili automatici, 100 lanciarazzi Rpg con munizionamento e altre armi più leggere. Ogni trasporto coinvolgeva una decina di container e, stando a calcoli fatti da giornalisti investigativi, questo si sostanziava in 250 tonnellate di armi per spedizione: il tutto, sotto la supervisione della Cia, tra l’ottobre del 2011 e l’agosto del 2012. Il mese dopo, le spedizioni si bloccarono di colpo quando l’attacco di miliziani libici contro l’ambasciata Usa di Bengasi portò all’incendio della stessa e del sito adiacente, quello usato per le operazioni verso la Siria. Non potendo più operare via Libia, la Cia mise in contatto i sauditi con un ufficiale croato che aprì la tratta balcanica – e, più in generale, dell’Est Europa – delle armi per i ribelli anti-Assad. 

Sulla strage di Bengasi, come ricordate, venne non a caso aperta una commissione d’inchiesta che tenne per mesi sulla graticola Hillary Clinton e aprì il caso delle mail secretate processate da un server privato: la Clinton, in rampa di lancio verso le presidenziali, si salvò. Ovviamente, grazie a sparizioni di documenti e emossioni. Resta però la storia e una certezza, che unisce il caso Brexit alla coraggiosa battaglia dello Stop Arming Terrorists Act e della sua relatrice: la realtà è sempre quella celata dietro le quinte. Quindi, aspettiamoci del movimento in Gran Bretagna. E, come annunciato senza vergogna l’altro giorno dalla Casa Bianca, anche in Siria. 

Soros e soldi, un’accoppiata vincente. Un’accoppiata che, piaccia o meno, scrive molti copioni nascosti. Fossi in voi, starei più attento alle fluttuazioni della sterlina o della lira turca che alle trattative formali a Bruxelles o a quella pagliacciata solenne del Russiagate, se volete capire qualcosa del futuro prossimo.





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