La “melina” politica che ha ritardato l’avvio della commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche basta a destituirla di ogni fondamento. Questo Parlamento vivrà ancora per soltanto altri sei mesi, un tempo troppo breve – si direbbe: “C’è pure Natale di mezzo!” – perché la commissione possa approdare alla benché minima conclusione seria. Con questo non si vuol dire che non andasse più riunita: al contrario, andava avviata prima, e solo la boria di Renzi e dei suoi ha ritardato e intralciato in ogni modo l’avvio di un esercizio di auspicabile severità istituzionale che dovrebbe accertare non tanto collusioni o interessi in conflitto – a cercare quelli, in teoria, dovrebbe star pensando la magistratura -, quanto le palesi superficialità e la chiara incompetenza che ha inquinato la gestione che della crisi bancaria è stata fatta nel nostro Paese.
Però attenzione: il ragionamento non deve nemmeno giungere all’eccesso di far credere che la materia sia facile e lineare al punto che dietro ogni lungaggine si possa scorgere un dolo o che dietro ogni errore si nasconda un intrallazzo; e non deve nemmeno far dimenticare che il totale dei costi che la collettività italiana si è accollata per le crisi bancarie accertate è di circa 20 miliardi di euro contro i 340 (addirittura 600, secondo un’interpretazione contabilmente estensiva) della Germania e i 180 della Francia. Cioè, il nostro sistema ha retto assai meglio di quello degli altri Paesi europei. Tra Montepaschi, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara e varie minori, i vari fondi intervenuti e il Tesoro hanno speso per evitare fallimenti “classici” appunto una ventina di miliardi. Poteva andare molto peggio.
E ora bisogna capire perché la commissione d’inchiesta non approderà a nulla e perchè saranno verosimilmente destinate a rimanere parole al vento le accuse, per quanto circostanziate, che da più parti si sono levate contro la Banca d’Italia e la Consob soprattutto in relazione al Monte dei Paschi di Siena. Partiamo dal riepilogo: quali accuse? Ben le sintetizza una lettera con cui, rivolgendosi proprio a Pier Ferdinando Casini – ex leader Udc ed ex genero di Francesco Gaetano Caltagirone, oggi presidente della Commissione d’inchiesta – Giuseppe Bivona del fondo inglese Bluebell Partners Limited, già consulente per gli investitori che hanno fatto causa a Rocca Salimbeni, riepiloga i suoi dubbi sul ruolo del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nella crisi di Mps.
Bivona scrive che “a partire dal 2013 il governatore della Banca d’Italia e i componenti del Direttorio, il presidente della Consob e i componenti della commissione, tre presidenti del Consiglio, tre ministri dell’Economia e il direttore generale del Tesoro (e numerosi altri) erano stati ripetutamente informati che Mps falsificava i bilanci contabilizzando 5 miliardi di derivati come titoli di stato, un gravissimo illecito (poi accertato dall’autorità giudiziaria) commesso ininterrottamente dal dicembre 2008 al giugno 2015”.
Possibile mai una cosa del genere? Che davvero siano arrivate quelle informazioni e che davvero tanta gente di altissima responsabilità abbia chiuso un occhio? E cos’avrebbe dovuto essere, quella gente? Una banda di ubriachi? Un’associazione a delinquere di Gomorra?
La verità ovviamente è un tantino più complessa. Giova ripartire da una vecchia battuta di Enrico Cuccia – almeno, gliela si attribuisce – che in un colloquio con l’attuale procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo quando era “l’attor giovane” del pool di Mani Pulite e indagava sul crac della Ferruzzi Finanziaria, appoggiandogli una mano sul ginocchio, così rispose alla domanda della giovane e fervida toga se alla fin fine i bilanci Ferfin fossero falsi oppure no: “Ragazzo mio, nella mia vita io ho visto solo bilanci falsi!”.
Ora, al di là dell’aneddoto, chiunque abbia un briciolo di pratica bancaria sa che dietro tutte le partite finanziarie difficili c’è un fattore di variabilità estrema, legato alla variabile tempo, alle incertezze e mutevolezze del contesto, alle mille diverse pieghe che una crisi può prendere. In materia di qualità dei crediti come di affidabilità degli investimenti finanziari non si procede sul suolo compatto dell’economia reale, ma sulle sabbie mobili delle variabili dei mercati. Aver acquistato per 9 miliardi di euro senza due-diligence una banca marcia come la Popolare Antonveneta fu, per il Monte dei Paschi di Siena, un errore madornale ed è sui moventi di questa scelta avventata che la magistratura dovrebbe indagare di più, perché senza dubbio sono stati inquinati da interessi quantomeno politici e forse economici inconfessabili. Ma una volta commesso l’errore, il suo esito non sarebbe stato così drammatico se di lì a un anno non fosse scoppiata una crisi finanziaria mondiale senza precedenti.
Quando, come Bivona ricostruisce, da più parti veniva segnalata alle autorità l’anomalia che cominciava a emergere visibilmente nei conti del Monte un intervento d’imperio, con la relativa visibilità che avrebbe assunto – per capirci: un commissariamento della banca, ammesso che ve ne fossero ricorsi i presupposti giuridici! -, da una parte avrebbe potuto forse prevenire il crac, dall’altra avrebbe anche potuto farlo precipitare.
L’umore collettivo attorno a una società quotata o a una banca è un fattore di concausa rilevantissimo sull’andamento dell’azienda in questione. Se di una banca il vasto pubblico apprende che corre il rischio di fallire, precipitandosi agli sportelli per ritirare i propri depositi, trasforma questo rischio in certezza. Non a caso alcune delle banche fallite all’estero durante la crisi hanno chiuso gli sportelli sul naso dei clienti proprio perché non avevano più soldi da restituire a chi glieli chiedeva. Quando di una società quotata – vi ricordate Parmalat? – si apprende che c’è un rischio di fallimento perché emerge nei conti un “buco” nascosto, la prima cosa che giustamente fa la Consob è sospenderne le contrattazioni fin quando il mercato non possa sapere con chiarezza dimensioni, cause e prospettive di quel buco: solo dopo le riammette, e il titolo può anche precipitare, ma, almeno, con piena cognizione di causa da parte di chi lo svende.
Insomma, in economia la notorietà pubblica dei fattori di pericolo di una qualsiasi situazione e di un qualsiasi soggetto incide su di essi amplificandoli e non è neutra. Dunque le autorità di controllo hanno il dovere della massima prudenza se vogliono preservare quel bene supremo che – si è visto – è la stabilità del sistema. Dentro questa regola aurea della prudenza si nasconde il rischio dell’eccesso di prudenza e dell’eccesso di confidenza e assistenza nei confronti dei vigilati: che alle volte non vengono trattati con la freddezza che si riserva a chi potrebbe essere un delinquente o un immeritevole, ma con la familiarità solidale che meriterebbe semmai una vittima… E questo è, sicuramente, molto antiestetico, soprattutto dal punto di vista delle vittime vere, coloro che perdono soldi per colpa di insipienze o interessi illeciti altrui.
Un’ultima considerazione la richiedono i metodi di prevenzione dei dissesti bancari oggi in vigore in Italia. Diciamo innanzitutto che per la maggior parte non sono solo nazionali, ma internazionali. E che sono severi e complessi, da applicare e da rispettare. Quel che manca all’appello è semmai il rigore di chi dovrebbe farli applicare e o è distratto per disinteresse o è colluso con eventuali intrallazzi o è troppo prudente. Sbaglia però chi pretenderebbe l’esistenza di norme capaci di prevenire al 100% i casi di illecito o di insipienza: in teoria, norme del genere potrebbero solo funzionare confiscando ogni autonomia decisionale delle società controllate e affidandole a dei supercontrollori, veri e propri sceriffi senza macchia senza paura, che diventerebbero nei fatti i demiurghi, i dittatori-ombra del sistema. Impensabile.